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Qualunque discorso non è mai l’inizio. Non è mai irrelato, indipendente dalle premesse tacite che lo sottendono. La piena consapevolezza di questo spinge all’autoreferenzialità, a rivolgere l’attenzione più che su un possibile obbiettivo o scopo dell’argomentare, alla  sua sorgente. Questa propensione “archeologica” dell’indagine - questo movimento a ritroso che prende vita con tale rivolgimento -  è andare in profondità : preferire lo scavo, all’operare in estensione o in ampiezza nel tentativo di annettere nuovi territori, di colonizzare in superficie. Un simile metodo non porta a un incremento di conoscenze, di cognizioni ordinabili e catalogabili ad uso e consumo di chicchessia. Genera semmai stupore, meraviglia e un certo timore, quando l’oggetto della ricerca – come poi inesorabilmente accade restando fedeli a tali premesse – tende ad impallidire, a sfumare, come una figura spettrale e fantasmatica, mano a mano che l’indagine si approfondisce. Questa è la quintessenza della cosiddetta “ricerca interiore”.

Ma cos’è la ricerca interiore?

E’ un’indagine che si nutre della sospensione dell’interesse per il mondo, coi suoi allettamenti e le sue brame. Una sospensione che accade quasi sempre in seguito a un impedimento o una patita frustrazione dei bisogni che si confidava di soddisfare rivolgendosi all’ esterno. Chi è destinato a conoscersi, pertanto, se non colui che ha trovato bloccata la strada che lo allontanava da se stesso?

Ma la ricerca interiore è anche assai più di quel che altrimenti sarebbe solo un passatempo narcisistico, un’osservazione - a volte compiaciuta a volte orrifica - del vuoto di forma che è alla radice dell’essere. E’ un movimento autonomo che può a lungo spacciarsi per quel che non è – ovvero : per libera scelta. Non c’è nulla di libero. Men che mai la reazione al riconoscimento di questo stato di cose. Ma non c’è neppure alcuna schiavitù, alcun vincolo. Libertà e Necessità sono due facce della stessa medaglia e non sono termini idonei, atti a descrivere adeguatamente ciò che è. Così, anche la “depressione” o la “mania” che possono sembrare scaturirne sono il frutto di un equivoco, di un errore di interpretazione. Il ritmo del flusso di produzione del pensiero non è mai regolare, poiché non c’è alcuna regola che lo governi. Non c’è scienza. Eppure almeno un simulacro di essa deve pur essercene, altrimenti - qui - di cos’è che stiamo parlando?

La scienza: bando all’etimologia. Con questa parola si possono fare bei giochini. Anzitutto, le si può anteporre il prefisso co- e ottenerne : coscienza. La Coscienza sembra qualcosa in più della scienza. Riporta l’attenzione sul fatto che c’è sempre un quid inafferrabile dietro la scienza. Dacché la scienza è inevitabilmente parte di una rappresentazione più comprensiva, di un teatro più vasto, di quello che si vede. Mentre la coscienza è quanto di più intimo possa esservi. Quanto di più nascosto e profondo. Che sia pertanto essa, l’oggetto della “ricerca interiore”? una ricerca indifferente ai nessi logici, dal momento in cui sia beninteso che la logica è pseudo-coscienza.

Si prenda una qualsiasi catena causale di eventi. La parola stessa (“catena”) indica prigionia, necessità, assenza di scelta: “determinismo psichico” lo chiamava S. Freud, applicandolo al dominio del discorso psico-logico, dove non fa una piega. Ma cos’è che effettivamente produce? quale nuova conoscenza? non è forse un’infinita catena di rimandi, di significanti che non conducono  mai a una completa lisi –a una risoluzione, a un punto culminante di chiarificazione definitiva?                                                         

L’efficacia della menzogna, nelle sue forme di espressione più raffinate, consiste proprio in questo. Nel creare un’illusione di conoscenza così convincente da far dimenticare che tutto è nulla. Con l’apparente nascita di qualcosa si entra nel campo del possibile, dell’intrattenimento infinito coi balocchi intercambiabili dell’esperienza verbale. Si potrà obbiettare che c’è la morte, a porre inesorabilmente fine a tutto questo: senonché la morte di tutti i non-fenomeni è il più oscuro e inesplicabile, certamente il meno “logico” tra tutti quelli che (non) si possono immaginare.  Per questo si può forse dire che la morte è la metafora dellinteriorità per eccellenza, nella sua espressione più pura e inviolabile. Se c’è tanto affaccendarsi attorno ad essa è perché,  benché non se ne sappia nulla, non si può fare a meno di non ignorarla.

L’ignoranza nei confronti della morte non ha limiti, a parte quelli sanciti dall’angoscia panica, più che dalla paura. Rituale religioso, cerimoniale funebre, culto dei morti … penetra tutto nel tessuto della vita, dissimulandosi in forme di sollecitudine, di amore per la legge, di passione necrofila per la salute del corpo e dell’anima. Non si fa altro. L’esorcismo perpetuo della morte è l’intrattenimento  prediletto dell’uomo, dalla notte dei tempi in qua. Il solo, a ben vedere. Sesso, droga, musica, scienza, cultura, amicizia, compassione, speranza, incoraggiamento, cura di sé e dell’altro da sé, interesse per il futuro, poesia, finanza, economia, giurisprudenza, passione amorosa, perversioni e travestitismo … perché continuare con una sterile elencazione delle potenzialmente infinite forme di inattività dello spirito?

Nel corso di una seria ricerca interiore è inevitabile che le virtù si sgretolino una dietro l’altra. Il cristianesimo è il tentativo forse più portentoso prodotto dall’ingegno umano di salvare il castello di sabbia della virtù dai marosi dell’innocenza. Per questo è difficile che un’onesta ricerca interiore ne possa ignorare l’immane potenziale di disperazione. Metterci sopra una croce è anche quel che asserisce il linguaggio comune: porre fine a ogni speranza - almeno per questa vita. La speranza - che era avversa dai greci antichi, uomini ancora fortemente ancorati all’istinto di vita e di morte - é roba da creature del sottosuolo, da mondo infero in cerca di redenzione. Una genuina ricerca interiore rivela tutto questo senza che occorra aprire alcun libro di umana fattura. Ma cosa può sorreggere il cercatore dinanzi a tanto sconcerto? nulla. Tant’è che egli non si ritrova, ma piuttosto si perde. Si perde nei meandri dello spirito generatore di forme. Dai oggi, dai domani … poco alla volta tutto si fa evanescente e impalpabile, finché  giunge - inatteso, insperato - il tempo dei miracoli.

Il tempo dei miracoli è un non-tempo, al pari dello spazio che è un non-spazio. Inutile, pertanto, cercarne le coordinate cartesiane. Sono cose che si possono sapere ma che non possono esser dette - come quelle degli antichi “misteri”. Sminuire il poeta e il sognatore è l’arte di dar corpo alla durezza della materia, alla crudezza del suo impatto. La malattia, qualunque tipo di malattia, di ciò ne è un’illustrazione esemplare. Non è facile privare un malato del suo sogno crudele, quando non resta altro rifugio per la sua immaginazione. La potenza dell’anima si misura anche coll’attaccamento alla sofferenza, all’agonia d’una morte che tarda ad arte il suo sopraggiungere, come un’amante ritrosa all’appuntamento coll’amato. Sovvertimento di tutti i valori è allora il non accadimento tramite cui è visto in trasparenza il nocciolo dell’equivoco - coltivato appassionatamente - chiamato la mia vita.

Se la ricerca interiore conduce nella terra di nessuno cosa c’è - in essa - di tanto allettante da renderla irresistibile? forse la noia, più che lo spirito di avventura. La noia stuporosa ed estenuata di duellare con un fantasma che schiva abilmente ogni fendente.

Così, la vita al di là della vita attira con sottigliezza irresistibile. Per questo occorre non dare troppo credito al referto medico-diagnostico che descrive, alla luce del giorno, “la causa di un decesso”. Quello che è cibo per l’immaginazione dei corpi è veleno per l’anima - il corpo dell’immaginazione. La notte racconta tutta un’altra storia. Una storia di rapimenti che non lasciano tracce tangibili tramite cui indagare.

Se esistesse un sentiero su cui poter segnare le tappe della mia esperienza contemplativa questo sarebbe il sentiero sempre più vasto e profondo del silenzio

(Bernadette Roberts)

                                                           

    

                    I

Non è facile dire qualcosa a proposito di questo libricino. Forse è più semplice descriverlo per quello che non contiene, che per quel che  contiene. Non è un diario spirituale. Non è un saggio sulla mistica. Non è un’autobiografia, né un frammento autobiografico. Non è certo un trattatello filosofico, né di psicologia fenomenologica. Eppure - nello stesso tempo - è ognuna di queste cose. Scritto con una prosa limpida, diretta, totalmente privo di ambizione letteraria, questo documento ha un valore inestimabile per chiunque sia interessato a comprendere la natura dell’esperienza di essere umani - di creature “senzienti” che non si limitano ad esistere, come fanno gli animali e le piante, ma che piuttosto insistono nel cercare di trovare un senso, un significato per cui “valga la pena” che la vita sia vissuta. L’autrice è un esemplare paradigmatico di cercatore, in tal senso. Di qualcuno che vuole sapere, che vuole scoprire, che vuole penetrare fin nei più intimi recessi dell’esistenza consapevole. Che aborre ogni forma di “automatismo” cognitivo-comportamentale,  ed è affamato di riscoprire sempre daccapo il valore dell’agire, del perseguimento di uno scopo, di un qualunque sforzo che non abbia alcuna intima necessità d’essere al di là dell’essenziale.  Prendendo le mosse da simili premesse la ricerca non può che approdare, infine, ad un punto d’arrivo che è anche – come mostra pagina dopo pagina la testimonianza di Bernadette Roberts – il suo punto d’origine. Ovvero al silenzio: l’impossibilità di dare voce a quell’amore che tutto accoglie e per il quale non possono esserci pensieri né tantomeno parole adeguate. Resta – forse - il declamare versi del poeta, come ultima possibilità di espressione ciarliera. Ma la Roberts è troppo ‘scientifica’ per accontentarsi di questo; è troppo audacemente ‘sperimentale’ per accettare di limitarsi tanto. Lei voleva “guardare in faccia” Dio e Lui - infine - l’ha accontentata. I suoi primi silenzi, calati tra le mura di un monastero che sorgeva nei pressi del mare, hanno delicatamente bussato alla porta del Padrone di Casa: ancora troppo timidi, per essere uditi da Egli stesso ben al di là della soglia, benché abbastanza insistenti per richiamare quanto meno l’attenzione della Sua Servitù.
Fino a quel punto, tuttavia, in tanti ci sono arrivati e ci arrivano: basta dare un’occhiata, per esempio, ad alcuni dei “casi clinici” descritti esemplarmente da R. D. Laing sul finire degli anni ’60 del secolo scorso nel suo libro “L’io diviso”, laddove si parla dell’angoscia di essere “risucchiati” che si manifesta nell’esperienza prepsicotica di alcune personalità ”schizoidi”. La Roberts scopre, sin da quelle prime avvisaglie, che si può agire senza alcun pensiero, e ne resta affascinata. Ma si intende, sin dalle prime pagine della narrazione, che ella già da un pezzo bramava ardentemente di “togliersi il pensiero” e, sebbene all’inizio ancora le riuscisse di strapparsi all’incanto, dovette presto rassegnarsi a constatare che “qualche pezzetto” - o se si preferisce noi diremo “una parte di sé ”- non sarebbe mai tornata indietro, da quel silenzio. Come accadde alla leggiadra Persefone quando venne rapita dall’astuto Ade, anche l’anima della nostra eroina s’è nutrita di un frutto troppo dolce per non desiderare di tornare al più presto laddove esso fu colto. La gioia che succedette a quel primo incontro con l’amato minacciò di straripare oltre gli argini, al punto ch’ella si chiese quanto tempo ancora essi avrebbero potuto reggere: una domanda che per inciso ci fa intendere che c’era ancora uno spettatore che osservava lo svolgersi della scena da una debita distanza di sicurezza. Ma Bernadette è troppo temeraria e innamorata per consentire a qualcuno di “restarsene a guardare”: “Dove finisco io e dove comincia Dio” -  è la domanda che l’ha sempre assillata. 

                                                                  II            

La ricerca dell’assoluto è rovinosamente corrosiva per il cercatore stesso; nella migliore delle ipotesi è un’inconfessata vocazione al suicidio. Oltrepassata una certa soglia di silenzio ci si inoltra in un vuoto che non contempla alcun Dio personale, né alcun Sé di uguale natura.  E’ quanto illustra il lucido resoconto di questa ex suora Carmelitana, che presto si trova a dover riconoscere che da un certo momento la sua “vita interiore” o “spirituale” era finita. A quel punto neppure i bramati paralleli con la Notte Oscura dell’Anima di cui narrano gli  scritti del (da lei) beneamato Giovanni della Croce poterono offrirle alcun conforto. Ella non sentiva più la vita. Intanto però - passo dopo passo, pagina dopo pagina - il lettore attento di Bernadette si trova a beneficiare di un tesoro inatteso, sparso qua e là, tra  le macerie ancora fumanti di un sé in frantumi. “Sapevo per esperienza che non serve pensare, per risolvere i problemi della vita” – ecco, una delle tante pepite d’oro che l’autrice sciorina con noncuranza dinanzi al nostro sguardo attonito. O ancora: “Non è Dio, ovvero la vita, a essere nelle cose. E’ esattamente l’opposto: le cose, ogni cosa, sono in Dio”. Ciò è quanto avrebbe affermato anche un altro inguaribile cercatore  come C.G. Jung, senonché lo psichiatra svizzero alla parola Dio preferiva – forse per una sorta di fatale “deformazione professionale”? – quella di Psiche. L’insegnamento Advaita (“non dualità”, in sanscrito) sin dall’antichità mette in guardia dall’illusione che qualcuno possa conseguire l’illuminazione spirituale - o Liberazione - attraverso la ricerca. Non perché essa richieda troppo sforzo ma, semplicemente, perché nessuno può raggiungerla. Forse anche per questo, di recente si possono osservare in parecchi filmati diffusi in rete alcuni individui che vanno in giro per il mondo dicendo di essere diventati nessuno**. Bernadette non ha mai fatto qualcosa di tanto spettacolare ed eclatante, ma la sua testimonianza scritta certo non è meno convincente della loro. Soprattutto perché si avverte la lotta drammatica di un’anima che vuole e non vuole soccombere all’avversario.  Il vento del conflitto, spirando gelido tra le pagine del suo resoconto, rende la narrazione della Roberts infinitamente più avvincente, persuasiva e verace di tanti satsang o “raduni” lautamente prezzolati i cui filmati circolano oggigiorno “online”. L’ironia serpeggia dappertutto nel testo scritto, ma non sconfina mai nella comicità o nel sarcasmo. Raggiunge l’apice quando l’autrice stessa figura colta di sorpresa da quello ch’ella indica come un’ineffabile, ubiquitario e pervasivo Sorriso.  Un “Sorriso” riguardo al quale è evidentemente insensato chiedersi di chi sia o a chi sia rivolto, essendo infine rivelatasi irrilevante - ai suoi occhi - la questione del confine, del limite tra l’umano e il divino. “Dio è tutto ciò che esiste. Tutto, naturalmente, tranne il sé” - afferma perentoriamente Bernadette.

                                                                   III

Le fasi critiche nell’esperienza contemplativa di Bernadette si succedono con ritmo irregolare, imprevedibile, ed un barlume di comprensione è attinto dalla protagonista quasi sempre a posteriori - a “cose fatte”, più spesso disfatte. La “morte del sé ”, ovvero la quieta benché al contempo drammatica scoperta di non avere un “mondo interiore” fatto di sentimenti, stati d’animo, timori, pensieri e aspettative personali - concernenti pertanto una propria vita - è sopraggiunta abbastanza presto. In seguito ad essa sono mutate tante cose, per Bernadette, anche al livello della pura e semplice percezione visiva. Le diventerà impossibile, ad esempio, “mettere a fuoco” le singole cose su cui cerca di soffermarsi lo sguardo, prendendo gradualmente piede una percezione vieppiù globale, totalizzante, di un mondo che evidentemente non ruota - come sembrava che facesse prima - intorno ad un “centro” divenuto ormai assente. Non le sembrerà più neppure di vedere dalla testa, ma da un punto esterno, posto al di sopra della sua sommità. Naturalmente anche la percezione del proprio corpo smarrirà la consueta familiarità. Le sensazioni della fatica, della fame, così come dei bisogni più elementari, tendono a perdere di intensità e di tono, pur non scomparendo del tutto. L’autrice paragona la sua nuova situazione a quella di qualcuno che debba occuparsi di curare e nutrire una pianta, dunque un organismo vivente del tutto esterno al proprio, che non è capace di comunicare quel che in ogni momento le occorre per vivere. Per cui le è necessario affidarsi, almeno in parte, al “buon senso” nonché ad un certo grado d’immaginazione empatica, che le consenta d’intuire quello che va o non va fatto per un’adeguata cura della propria persona fisica. La sua può apparire, a questo punto, una condizione penosa – almeno se osservata da "qualcuno" - ma Bernadette non si compiange mai, non avendo più neppure la forza per indulgere a farlo. Reagisce piuttosto tuffandosi nella vita, in una vita che avverte scorrere dappertutto, meno che dentro di sé. Cerca allora di confondersi col mondo, coi suoi rumori, col suo vocio indistinto, che evoca qualcosa di nostalgico forse proprio in quanto  irrimediabilmente perduto. La relativa tregua che scaturisce da questo spostamento dell’attenzione non risulterà tuttavia duratura. Un silenzio onnipervasivo incombe dappertutto, minacciando di estinguere ogni percezione di vitalità non soltanto “dentro” ma anche ”fuori” di lei.  Probabilmente provvidenziale, per impedire il tracollo di un equilibrio critico, costantemente minacciato, è stato per la Roberts il compito ineludibile di doversi confrontare anche nelle fasi più tempestose del “viaggio” (come quel che definisce il Grande Passaggio) con le necessità dell’ambiente umano circostante, in particolare dei suoi quattro figli, ancora relativamente dipendenti dall’accudimento quotidiano della loro madre. L’esperienza di Bernadette Roberts infrange così anche quell’immagine tradizionale e un po' stilizzata che vuole una “chiamata spirituale”, con tutte le sue svariate implicazioni esistenziali, qualcosa di avulso dalla dimensione di vita ordinaria della persona, con le sue familiari, immediate impellenze. Lei appare sempre come "una di noi" - un essere umano come tanti - per quanto la sua più profonda e intima domanda indubbiamente non sia così ordinario e comune rinvenire manifestamente tra le persone.

                                                                   IV

Il succedersi di eventi e trasformazioni nell’esperienza e nel vissuto della protagonista sono difficilmente comunicabili tramite la parola, per quanto ella faccia il possibile affinché il lettore possa averne quanto meno un barlume di intuizione, se non proprio d’immaginazione. Così, l’ausilio di adeguate metafore svolge un ruolo imprescindibile, affinché qualcosa di Quello di cui parla Bernadette possa essere comunicato al fruitore del testo scritto. Una delle metafore più suggestive, utilizzata infine dall’autrice per rendere l’idea di cosa abbia implicato per lei pervenire al termine del suo periglioso viaggio, è quella del camminare su un asse d’equilibrio.  In merito a ciò, non credo di essere in grado di formulare il pensiero di Bernadette meglio di quanto riescano a fare le sue stesse parole: “All’inizio si procede lungo l’asse per tentativi ed errori, ma alla fine (…) diventa una seconda natura: o meglio, si comincia a scoprire che fa parte della nostra vera natura ed è il modo in cui dovremo camminare per il resto della nostra vita. Di conseguenza quando, per così dire, sentiamo sotto i piedi la presenza di qualcosa, sappiamo di stare sull’asse, di vivere e agire alla maniera giusta e naturale; quando viceversa sotto i piedi abbiamo vuoto, siamo fuori dall’asse e non c’è più un vero fare. Si può dunque dire che il fare è la manifestazione di qualcosa, o di ciò che è, mentre il non-fare, l’attività investita nel sé, è la manifestazione del nulla in assoluto. (…) Quando l’esistenza priva di sé scompare del tutto, quello che resta è il fare, che è come un asse, una guida e quel qualcosa che coincide con ciò che è."  Prosegue poi dicendo: “Il contenuto del fare, vale a dire ciò che facciamo, è tracciato via via dall’inconoscibile direzione dell’asse, che è stretta e diritta e non tollera giri tortuosi.”  Ma allora ci chiediamo, a questo punto, se vi sia un qualche grado di libertà di cui possa beneficiare la nostra condotta. A tale ormai inderogabile quesito l’autrice risponde col consueto tono perentorio: “Una volta sull’asse noi non siamo più liberi di andare e venire, in quanto è solo il sé che gode di questa libertà. Una condizione priva di scelta non conosce i comuni attributi della libertà; qui c’è soltanto la libertà dal sé, che si scopre non essere affatto libertà. Chi c’è, a essere libero? Chi c’è a scegliere e provare, a porre i traguardi e tracciare il sentiero? Chi era libero ormai è svanito e quello che resta cammina ora sull’asse, al pari di un albero che, privo di pensiero, deve crescere e vegetare secondo una direzione predisposta dalla sua natura, una natura tanto intelligente da restare per sempre totalmente inconoscibile alla mente umana. Così, sapere cosa fare o dove mettere i piedi è un problema che non esiste: quello che si deve sapere semplicemente c’è e quello che non si sa non c’è. In altre parole il ‘che fare’ è strutturato nell’asse stesso, così che il fare è identico al suo contenuto, a ciò che esso fa. Ed ecco che conoscere, vedere, fare sono uno e un solo atto senza alcuna frattura che li divida.” Finalmente, un barlume di luce squarcia la nube oscura che sinora percepivamo aleggiare sulle nostre teste, al punto che il seguito di quanto afferma Bernadette suona persino soave alle nostre orecchie:  “Ciò che un tempo creava la divisione tra il fare e il suo contenuto era il sé con tutte le sue scelte, i valori, i giudizi, le idee e tutto il resto, il sé che non salirà mai sull’asse né potrà mai trovarlo, poiché è bloccato da tutte le sue cosiddette libertà. (…) Su quest’asse ciò che è procede secondo una sicura, irrevocabile, inconoscibile direzione, col risultato che il conoscere e il fare coincidono. (…) Come questo possa accadere non so, ma (…) fa parte integrante della chiarezza di mente che diviene possibile una volta sull’asse: una volta che si diventa tutt’uno con ciò che è.” Tutt’uno con ciò che è. Le parole della Roberts non lasciano spazio ad equivoci.  Alla radice della perentorietà del suo discorso traspare tutta l’autorevolezza che può scaturire soltanto dall’avere visto fino in fondo. Per concludere questo commento, un’ultima considerazione sulla questione del valore e significato dell’illuminazione spirituale.  La Roberts l’ha indicato chiaramente, sebbene non l’abbia del tutto esplicitato: l’illuminazione comporta una perdita e nient’affatto – come a volte si potrebbe credere, in base ai discorsi che capita di ascoltare talvolta persino all’interno degli stessi circuiti dell’advaita contemporaneo – un guadagno.   La perdita del sé.  Desiderare di conseguirla significa voler perdere quelle (pur illusorie) poche “certezze” che crediamo di possedere.  Se tanti sedicenti “maestri spirituali” oggigiorno fossero sufficientemente chiari come lo è stata, anche su questo punto, Bernadette Roberts, sarebbe piuttosto improbabile che si ritrovassero  ad essere seguiti da numerosi - talvolta persino da uno stuolo di – proseliti e cercatori. E’ assai più probabile, invece, che per molti di costoro la ‘ricerca spirituale’ sia piuttosto un tentativo di fuga da ciò che è: una più o meno sottile manovra, o manipolazione psicologica, finalizzata a rafforzare il sé, anziché a perderlo. Mi pare che fu F. Nietzsche, che una volta disse: “ Quando guardi a lungo nell’abisso, l’abisso ti guarda dentro.”

nota biografica

* Bernadette Roberts è nata nel 1931 in California da genitori cattolici osservanti. Entrò nel monastero dei Carmelitani scalzi quando aveva diciassette anni, nel gennaio del 1949. Dopo otto anni e mezzo di vita monastica, lasciò il chiostro ed entrò all'Università dello Utah, dove per tre anni fu studentessa di medicina. Tornata a casa dei suoi genitori a Hollywood, in California, conseguì la laurea in Filosofia presso la “University of Southern California”. Per quattro anni avrebbe insegnato Fisiologia e Algebra presso una scuola superiore d’ispirazione religiosa di Los Angeles, dove incontrò e sposò un collega insegnante, dal quale ebbe quattro figli. Quindi la Roberts aprì una scuola “Montessori” presso Kalispell, nel Montana, nel 1969, dopo aver ottenuto le necessarie credenziali in Inghilterra. Nella sua scuola avrebbe sperimentato metodi di psicologia cognitiva dell’età evolutiva basati sugli studi di Jean Piaget.  Nel 1973 conseguì un master in educazione della prima infanzia presso la “University of Southern California”.  Nel 1976 il marito lasciò lei ed i figli; in seguito ella ottenne l’annullamento del matrimonio.  Negli ultimi quarant'anni frequentò prolungati ritiri presso i monaci camaldolesi sul “Big Sur”, in California. E’ morta nel 2017, nella sua casa nel sud della California, durante il sonno. La Roberts ha raccontato e dettagliatamente descritto la sua vita ed il suo cammino spirituale. Il suo “Autobiography of the Early Years” contiene un resoconto delle prime esperienze familiari e spirituali. Dopo anni di vita contemplativa avrebbe descritto l’evento che definì l'esperienza del non-Sé. In seguito alla pubblicazione del materiale relativo all’argomento la Roberts ha iniziato a ricevere dappertutto inviti affinché ne parlasse più approfonditamente.  Gli ultimi 30 anni di vita li dedicò a tenere ritiri annuali su "L'essenza della mistica cristiana".

**Vedi su questo stesso sito l'articolo "Introduzione alla non dualità"