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Oggi l’Io è una mente che ha esaurito tutte le risorse. L’unica strada è che l’Io si apra alla possibilità della grazia e di un rinnovamento che potrebbe allora aver luogo in sua assenza. In assenza dell’Io, nel suo vuoto, il flusso immaginale potrà scorrere liberamente 

(J. Hillman 1967, "Senex e Puer")

La non dualità non è una dottrina psicologica, non è una religione, non è una filosofia. Non è neppure una “visione del mondo”. Non è, inoltre, un sistema di pensiero né una mappa cognitiva che consenta di orientarsi su un qualsiasi territorio – ovvero nell’ambito di qualunque genere di esperienza concretamente vissuta. E’ solo un concetto che vuole additare a qualcosa di inconcepibile, destinato a restare fondamentalmente inesprimibile tramite l’uso del linguaggio.  

Il termine “non dualità” è la traduzione del sanscrito “ad-vaita”, non-due. Sarebbe però fuorviante credere che tratti di qualcosa di misterioso ed esoterico,  che ha a che fare specificamente con l’Oriente ed alcune forme di religiosità o di  concezione psicologica e/o filosofica che abbiano le loro radici in quel terreno. Qualcosa di simile è stato infatti espresso sin da tempi antichi anche in Occidente, e non è pertanto necessario ricondurne la matrice ad un preciso contesto culturale,  etnico-antropologico o geografico. L’intuizione di fondo è che, pur essendo giusto distinguere tra un soggetto e un oggetto all’interno di qualunque processo conoscitivo, la loro radicale separazione è qualcosa di sostanzialmente artificioso e illusorio: che tra osservatore ed osservato sussista un rapporto assai più intimo di quanto possa sembrare.  Questo enunciato collima, peraltro, con quanto indicano la gestalt, la “teoria dei sistemi” e la stessa fisica contemporanea –  quella “meccanica dei quanti” che  ha ormai rinunciato all’idea di una conoscenza obbiettiva, che possa cioè prescindere  dal ruolo e dall’influenza decisiva dell’osservatore e della sua strumentazione ai  fini dell’indagine.  Ma questo non è tutto.  Poiché non solo la distanza spaziale ma anche quella temporale, che caratterizza ogni processo trasformativo, contribuisce ad alimentare un illusorio senso di separatezza. Ne è un valido esempio (fatto dal prof. Bergonzi*, da cui qui lo riprendo) quello dell’ente denominato con la parola rosa, che ieri era un ramo spinoso, oggi è un fiore profumato e domani sarà spazzatura maleodorante.

La questione di fondo è che il linguaggio, nel denotare oggetti in quanto entità circoscritte (onde rendere l’esistente indicabile e opportunamente fruibile) alimenta l’idea illusoria del sussistere di una qualche sostanza:  qualcosa di consistente spazialmente definito ed isolato, nonché stabile e durevole nel tempo.  

Ciò vale, naturalmente, anche per quel che attiene il mondo delle relazioni umane, dei rapporti tra le persone. La non dualità mette in discussione l’esistenza della persona – intesa come un me o un io individuale facente capo ad un corpo fisico – come entità separata da tutto il resto, in quanto non-io e/o mondo esterno.

In merito alla questione, navigando in rete si possono trovare spezzoni di filmati in cui alcuni soggetti “testimoniano” il messaggio “non duale” davanti ad un pubblico di cultori/interlocutori affascinati da quel che sembrerebbe essere qualcosa di autenticamente sentito e vissuto, per quanto solo approssimativamente descrivibile mediante il linguaggio della parola. Costoro affermano di non percepire (più**) di avere un io né un’identità ben definita, essendo ormai solo semplice presenza, testimonianza incondizionata di una vitalità naturale, irriflessa, dell’esistenza - un’esistenza per lo più indicata sinteticamente con la locuzione inglese what is, che si può tradurre in italiano come ciò che è. Pertanto non si considerano più – almeno è quanto affermano – individui, essendo il senso dell’individualità – la sensazione di essere un io/corpo o un me separato da tutto il resto - del tutto scomparso, almeno da un certo momento della loro vita, per fare posto a … nulla e a nessuno - ovvero alla vita stessa (naturalmente questo è solo un modo indicativo di riferirsi a qualcosa di indescrivibile).

La fine del senso di separatezza/dualità (la sparizione di una coscienza intrapsichica, riflessiva) implicherebbe anche che non ci sia più qualcuno né alcuna dialettica dei  “punti di vista” (che presupporrebbe il persistere della distinzione tra soggetto-oggetto all’interno  di qualunque processo conoscitivo), permanendo soltanto un semplice e ubiquitario essere/esperire totalmente impersonale.  L’affermazione - tutt’altro che tacita – comune a costoro è che l’accadere della vita sia essenzialmente sogno, apparenza, illusione, irrealtà: asserzione assimilabile a quella di gran parte delle religioni e delle filosofie Orientali – anzitutto il buddhismo, con la sua maya o “illusione cosmica” – ma anche, in Occidente (in un senso però più poetico che letterale) al pensiero di autori come W. Shakespeare e Calderon de la Barca per i quali “… la vita è sogno”, giungendo – ai nostri giorni – a quanto sostiene buona parte della scienza moderna, specificamente la succitata fisica quantistica, che mette in discussione l’effettiva esistenza della "materia". Le vicende degli uomini sarebbero soltanto storie - effimere “tessiture della maya” che non toccano in alcun modo la verità dell’essere, con la sua irriducibile, gratuita,  inestinguibile libertà e vitalità naturale.

Tutto è uno e tutto sorge - semplicemente ed estemporaneamente - senza che vi sia alcun senso, alcun processo, alcuna meta, alcuna direzionalità, né alcuno scopo.

Il “messaggio” non dualistico appare di una semplicità disarmante, tanto da risultare – è quanto viene sovente affermato – inafferrabile proprio a causa di tale semplicità. E d’altra parte chi potrebbe afferrarlo se, in realtà, non c’è nessuno? Naturalmente non c’è neppure alcun libero arbitrio. Inoltre tutto è - al contempo - reale e irreale. Tuttavia si parla sovente di Amore. Amore assoluto e incondizionato. Tutto è Amore, e qualunque “cosa” – dall’apparenza di quell’oggetto davanti ai miei occhi denominato ‘tavolo’, alla luce delle stelle disseminate nel cosmo - costituirebbe un invito a tale riconoscimento. A tornare a casa.

Una “casa” da cui peraltro nessuno si sarebbe mai davvero allontanato. A quel Paradiso che non sarebbe affatto altrove - in linea con quanto avrebbe affermato anche il Cristo dei Vangeli, al quale si attribuiscono le parole:

                                 “ Il regno di dio è già in mezzo a voi

(Lc. 17,21)

Inoltre non sussisterebbe – inteso in assoluto - alcun rapporto causale, nessuna conseguenzialità che connetta in qualche modo le cose e gli accadimenti tra loro. Che si tratti di sentimenti, di stati d’animo, di oggetti o di quant’altro … poco importa distinguere, in merito. Anche perché non c’è alcuna separatezza tra il mio corpo e la sedia su cui siedo. Così come non c’è  tra l’istante presente e il successivo. Anzi: non c’è neppure un istante successivo, poiché c’è soltanto questo. Ciò che è. Che è tutto e nulla, nonché – e al contempo - reale e irreale, assoluto e relativo.

Il messaggio non dualistico non avrebbe esso stesso alcuno scopo, naturalmente. Sarebbe pura condivisione: l’annuncio (la nuova “buona novella”?) di un’evidenza tacita, senza che venga effettivamente con-diviso nulla, poiché non sussisterebbe alcuna sostanziale distanza, nessuna separatezza, tra “me” e “te”.

Quello della non dualità - che come è stato già rilevato sarebbe la traduzione letterale del termine sanscrito a-dvaita, ovvero non-due - si pone come un “punto di vista” (sic!) sconcertante per il pensiero ordinario ma al contempo denso di feconde implicazioni. Adottandolo si “risolverebbero” tutti i “problemi” che crediamo di avere poiché - in realtà – di “problemi” non ne “abbiamo” proprio nessuno. Meglio ancora: non c’è nessuno che possa averne, essendo tutto - proprio tutto - 

                 “… soltanto il gioco dell’Uno che fa finta di essere Due

ovvero

           “ … nient’altro che uno scherzo divino e gloriosamente inutile

(T. Parsons)

Sebbene quanto sin qui delineato pur sommariamente costituisca forse il denominatore comune di qualsiasi approccio non duale, nei circuiti dell’ad-vaita contemporaneo si riscontrano delle posizioni piuttosto articolate e diversificate, tra coloro che possono esserne considerati i rappresentanti di maggiore rilievo. Per esempio, ad autori come Rupert Spira*** che contemplano l'esistenza di una coscienza/consapevolezza priva di oggetto (definita talvolta come “presenza mentale” o “io sono”) intesa come dato esperienziale irriducibile e originario, si contrappongono altri come T. Parsons e J. Newman**** per i quali persino il ruolo giocato da essa risulterebbe essere del tutto artificioso e illusorio.           

Concludo col ribadire l’assunto di base del messaggio “non dualistico”: ovvero che le parole, in merito, possono solo “puntare” verso qualcosa d’inesprimibile – ad un quid troppo immanente, immediato, per poter essere adeguatamente espresso da qualunque genere di descrizione verbale. Questo accomuna parecchio qualunque discorso concernente la non dualità agli enunciati riguardanti tanto l’esperienza estetica quanto quella mistica (dal greco "mystikòs" = misterioso; "myein" = chiudere, tacere), poiché entrambi additanti qualcosa che è destinato a rimanere sempre e sostanzialmente indicibile.

Note

*Docente di Religioni e Filosofie dell'India all'Università «L'Orientale» di Napoli;  socio e analista del Centro Italiano di Psicologia Analitica. A partire dagli anni '70 Mauro Bergonzi si è dedicato all’approfondimento dei percorsi meditativi di varie tradizioni orientali quali buddhismo, vedanta, taoismo. Si veda, tra le altre, la breve videointervista pubblicata il 30 set 2016 in www.spaziolanimale.com (https://youtu.be/ZwGHCISiTaU)

**  "l’ultimo pezzetto, quando sentii per la prima volta parlare di non dualità… fu solo un riconoscimento retrospettivo che c’era una fine assoluta di tutte le esperienze, un niente assoluto, il nulla… ma certamente un tutto che è nulla e un nulla che è tutto. Era tutto quello che era. Non c’era riconoscimento di ciò che era, fu solo un grosso accadimento energetico. E poi - in seguito - ci fu un crollo, o dei glimpses, come degli aspetti di ciò che è o ciò che era stato coperto dal cercare ciò che è. E alla fine, certamente, non c’è un processo… perché alla fine - siccome questo non sta accadendo, ma sembra solo che stia accadendo - l’intero processo che porterà al fatto che niente stia accadendo è un’idea ridicola - che qualcosa può condurre al nulla. Quindi alla fine è riconosciuto che non c’è un processo, perché niente è mai in realtà davvero accaduto. Era solo un sogno, dal quale nessuno si sveglia, perché il sogno è il sognatore che sogna il proprio sogno" (tratto da un’intervista a J. Newman sulla natura del sé rilasciata a Vienna nel 2018, https://youtu.be/POytnSH0aUs)  

*** Tra i libri di quest’insegnante e praticante di origini britanniche di non dualità si suggerisce la lettura del volume edito nel 2018 da Astrolabio Ubaldini  col titolo: ”La natura della coscienza. Saggi sull'unità di mente e materia”

****Di questi due “messaggeri” (o speakers) di non dualità sono rinvenibili in rete parecchie interviste e videofilmati, dei quali diversi sottotitolati e/o simultaneamente tradotti dal  vivo in italiano. Tra questi ultimi si raccomanda la visione di almeno uno della serie di incontri tenuti da Jim Newman nel 2016 a Milano (https://youtu.be/yQrp9qmWgnQ). In questo stesso sito è presente la trascrizione della prima parte di quest'ultimo incontro.

Se esistesse un sentiero su cui poter segnare le tappe della mia esperienza contemplativa questo sarebbe il sentiero sempre più vasto e profondo del silenzio

(Bernadette Roberts)

                                                           

    

                    I

Non è facile dire qualcosa a proposito di questo libricino. Forse è più semplice descriverlo per quello che non contiene, che per quel che  contiene. Non è un diario spirituale. Non è un saggio sulla mistica. Non è un’autobiografia, né un frammento autobiografico. Non è certo un trattatello filosofico, né di psicologia fenomenologica. Eppure - nello stesso tempo - è ognuna di queste cose. Scritto con una prosa limpida, diretta, totalmente privo di ambizione letteraria, questo documento ha un valore inestimabile per chiunque sia interessato a comprendere la natura dell’esperienza di essere umani - di creature “senzienti” che non si limitano ad esistere, come fanno gli animali e le piante, ma che piuttosto insistono nel cercare di trovare un senso, un significato per cui “valga la pena” che la vita sia vissuta. L’autrice è un esemplare paradigmatico di cercatore, in tal senso. Di qualcuno che vuole sapere, che vuole scoprire, che vuole penetrare fin nei più intimi recessi dell’esistenza consapevole. Che aborre ogni forma di “automatismo” cognitivo-comportamentale,  ed è affamato di riscoprire sempre daccapo il valore dell’agire, del perseguimento di uno scopo, di un qualunque sforzo che non abbia alcuna intima necessità d’essere al di là dell’essenziale.  Prendendo le mosse da simili premesse la ricerca non può che approdare, infine, ad un punto d’arrivo che è anche – come mostra pagina dopo pagina la testimonianza di Bernadette Roberts – il suo punto d’origine. Ovvero al silenzio: l’impossibilità di dare voce a quell’amore che tutto accoglie e per il quale non possono esserci pensieri né tantomeno parole adeguate. Resta – forse - il declamare versi del poeta, come ultima possibilità di espressione ciarliera. Ma la Roberts è troppo ‘scientifica’ per accontentarsi di questo; è troppo audacemente ‘sperimentale’ per accettare di limitarsi tanto. Lei voleva “guardare in faccia” Dio e Lui - infine - l’ha accontentata. I suoi primi silenzi, calati tra le mura di un monastero che sorgeva nei pressi del mare, hanno delicatamente bussato alla porta del Padrone di Casa: ancora troppo timidi, per essere uditi da Egli stesso ben al di là della soglia, benché abbastanza insistenti per richiamare quanto meno l’attenzione della Sua Servitù.
Fino a quel punto, tuttavia, in tanti ci sono arrivati e ci arrivano: basta dare un’occhiata, per esempio, ad alcuni dei “casi clinici” descritti esemplarmente da R. D. Laing sul finire degli anni ’60 del secolo scorso nel suo libro “L’io diviso”, laddove si parla dell’angoscia di essere “risucchiati” che si manifesta nell’esperienza prepsicotica di alcune personalità ”schizoidi”. La Roberts scopre, sin da quelle prime avvisaglie, che si può agire senza alcun pensiero, e ne resta affascinata. Ma si intende, sin dalle prime pagine della narrazione, che ella già da un pezzo bramava ardentemente di “togliersi il pensiero” e, sebbene all’inizio ancora le riuscisse di strapparsi all’incanto, dovette presto rassegnarsi a constatare che “qualche pezzetto” - o se si preferisce noi diremo “una parte di sé ”- non sarebbe mai tornata indietro, da quel silenzio. Come accadde alla leggiadra Persefone quando venne rapita dall’astuto Ade, anche l’anima della nostra eroina s’è nutrita di un frutto troppo dolce per non desiderare di tornare al più presto laddove esso fu colto. La gioia che succedette a quel primo incontro con l’amato minacciò di straripare oltre gli argini, al punto ch’ella si chiese quanto tempo ancora essi avrebbero potuto reggere: una domanda che per inciso ci fa intendere che c’era ancora uno spettatore che osservava lo svolgersi della scena da una debita distanza di sicurezza. Ma Bernadette è troppo temeraria e innamorata per consentire a qualcuno di “restarsene a guardare”: “Dove finisco io e dove comincia Dio” -  è la domanda che l’ha sempre assillata. 

                                                                  II            

La ricerca dell’assoluto è rovinosamente corrosiva per il cercatore stesso; nella migliore delle ipotesi è un’inconfessata vocazione al suicidio. Oltrepassata una certa soglia di silenzio ci si inoltra in un vuoto che non contempla alcun Dio personale, né alcun Sé di uguale natura.  E’ quanto illustra il lucido resoconto di questa ex suora Carmelitana, che presto si trova a dover riconoscere che da un certo momento la sua “vita interiore” o “spirituale” era finita. A quel punto neppure i bramati paralleli con la Notte Oscura dell’Anima di cui narrano gli  scritti del (da lei) beneamato Giovanni della Croce poterono offrirle alcun conforto. Ella non sentiva più la vita. Intanto però - passo dopo passo, pagina dopo pagina - il lettore attento di Bernadette si trova a beneficiare di un tesoro inatteso, sparso qua e là, tra  le macerie ancora fumanti di un sé in frantumi. “Sapevo per esperienza che non serve pensare, per risolvere i problemi della vita” – ecco, una delle tante pepite d’oro che l’autrice sciorina con noncuranza dinanzi al nostro sguardo attonito. O ancora: “Non è Dio, ovvero la vita, a essere nelle cose. E’ esattamente l’opposto: le cose, ogni cosa, sono in Dio”. Ciò è quanto avrebbe affermato anche un altro inguaribile cercatore  come C.G. Jung, senonché lo psichiatra svizzero alla parola Dio preferiva – forse per una sorta di fatale “deformazione professionale”? – quella di Psiche. L’insegnamento Advaita (“non dualità”, in sanscrito) sin dall’antichità mette in guardia dall’illusione che qualcuno possa conseguire l’illuminazione spirituale - o Liberazione - attraverso la ricerca. Non perché essa richieda troppo sforzo ma, semplicemente, perché nessuno può raggiungerla. Forse anche per questo, di recente si possono osservare in parecchi filmati diffusi in rete alcuni individui che vanno in giro per il mondo dicendo di essere diventati nessuno**. Bernadette non ha mai fatto qualcosa di tanto spettacolare ed eclatante, ma la sua testimonianza scritta certo non è meno convincente della loro. Soprattutto perché si avverte la lotta drammatica di un’anima che vuole e non vuole soccombere all’avversario.  Il vento del conflitto, spirando gelido tra le pagine del suo resoconto, rende la narrazione della Roberts infinitamente più avvincente, persuasiva e verace di tanti satsang o “raduni” lautamente prezzolati i cui filmati circolano oggigiorno “online”. L’ironia serpeggia dappertutto nel testo scritto, ma non sconfina mai nella comicità o nel sarcasmo. Raggiunge l’apice quando l’autrice stessa figura colta di sorpresa da quello ch’ella indica come un’ineffabile, ubiquitario e pervasivo Sorriso.  Un “Sorriso” riguardo al quale è evidentemente insensato chiedersi di chi sia o a chi sia rivolto, essendo infine rivelatasi irrilevante - ai suoi occhi - la questione del confine, del limite tra l’umano e il divino. “Dio è tutto ciò che esiste. Tutto, naturalmente, tranne il sé” - afferma perentoriamente Bernadette.

                                                                   III

Le fasi critiche nell’esperienza contemplativa di Bernadette si succedono con ritmo irregolare, imprevedibile, ed un barlume di comprensione è attinto dalla protagonista quasi sempre a posteriori - a “cose fatte”, più spesso disfatte. La “morte del sé ”, ovvero la quieta benché al contempo drammatica scoperta di non avere un “mondo interiore” fatto di sentimenti, stati d’animo, timori, pensieri e aspettative personali - concernenti pertanto una propria vita - è sopraggiunta abbastanza presto. In seguito ad essa sono mutate tante cose, per Bernadette, anche al livello della pura e semplice percezione visiva. Le diventerà impossibile, ad esempio, “mettere a fuoco” le singole cose su cui cerca di soffermarsi lo sguardo, prendendo gradualmente piede una percezione vieppiù globale, totalizzante, di un mondo che evidentemente non ruota - come sembrava che facesse prima - intorno ad un “centro” divenuto ormai assente. Non le sembrerà più neppure di vedere dalla testa, ma da un punto esterno, posto al di sopra della sua sommità. Naturalmente anche la percezione del proprio corpo smarrirà la consueta familiarità. Le sensazioni della fatica, della fame, così come dei bisogni più elementari, tendono a perdere di intensità e di tono, pur non scomparendo del tutto. L’autrice paragona la sua nuova situazione a quella di qualcuno che debba occuparsi di curare e nutrire una pianta, dunque un organismo vivente del tutto esterno al proprio, che non è capace di comunicare quel che in ogni momento le occorre per vivere. Per cui le è necessario affidarsi, almeno in parte, al “buon senso” nonché ad un certo grado d’immaginazione empatica, che le consenta d’intuire quello che va o non va fatto per un’adeguata cura della propria persona fisica. La sua può apparire, a questo punto, una condizione penosa – almeno se osservata da "qualcuno" - ma Bernadette non si compiange mai, non avendo più neppure la forza per indulgere a farlo. Reagisce piuttosto tuffandosi nella vita, in una vita che avverte scorrere dappertutto, meno che dentro di sé. Cerca allora di confondersi col mondo, coi suoi rumori, col suo vocio indistinto, che evoca qualcosa di nostalgico forse proprio in quanto  irrimediabilmente perduto. La relativa tregua che scaturisce da questo spostamento dell’attenzione non risulterà tuttavia duratura. Un silenzio onnipervasivo incombe dappertutto, minacciando di estinguere ogni percezione di vitalità non soltanto “dentro” ma anche ”fuori” di lei.  Probabilmente provvidenziale, per impedire il tracollo di un equilibrio critico, costantemente minacciato, è stato per la Roberts il compito ineludibile di doversi confrontare anche nelle fasi più tempestose del “viaggio” (come quel che definisce il Grande Passaggio) con le necessità dell’ambiente umano circostante, in particolare dei suoi quattro figli, ancora relativamente dipendenti dall’accudimento quotidiano della loro madre. L’esperienza di Bernadette Roberts infrange così anche quell’immagine tradizionale e un po' stilizzata che vuole una “chiamata spirituale”, con tutte le sue svariate implicazioni esistenziali, qualcosa di avulso dalla dimensione di vita ordinaria della persona, con le sue familiari, immediate impellenze. Lei appare sempre come "una di noi" - un essere umano come tanti - per quanto la sua più profonda e intima domanda indubbiamente non sia così ordinario e comune rinvenire manifestamente tra le persone.

                                                                   IV

Il succedersi di eventi e trasformazioni nell’esperienza e nel vissuto della protagonista sono difficilmente comunicabili tramite la parola, per quanto ella faccia il possibile affinché il lettore possa averne quanto meno un barlume di intuizione, se non proprio d’immaginazione. Così, l’ausilio di adeguate metafore svolge un ruolo imprescindibile, affinché qualcosa di Quello di cui parla Bernadette possa essere comunicato al fruitore del testo scritto. Una delle metafore più suggestive, utilizzata infine dall’autrice per rendere l’idea di cosa abbia implicato per lei pervenire al termine del suo periglioso viaggio, è quella del camminare su un asse d’equilibrio.  In merito a ciò, non credo di essere in grado di formulare il pensiero di Bernadette meglio di quanto riescano a fare le sue stesse parole: “All’inizio si procede lungo l’asse per tentativi ed errori, ma alla fine (…) diventa una seconda natura: o meglio, si comincia a scoprire che fa parte della nostra vera natura ed è il modo in cui dovremo camminare per il resto della nostra vita. Di conseguenza quando, per così dire, sentiamo sotto i piedi la presenza di qualcosa, sappiamo di stare sull’asse, di vivere e agire alla maniera giusta e naturale; quando viceversa sotto i piedi abbiamo vuoto, siamo fuori dall’asse e non c’è più un vero fare. Si può dunque dire che il fare è la manifestazione di qualcosa, o di ciò che è, mentre il non-fare, l’attività investita nel sé, è la manifestazione del nulla in assoluto. (…) Quando l’esistenza priva di sé scompare del tutto, quello che resta è il fare, che è come un asse, una guida e quel qualcosa che coincide con ciò che è."  Prosegue poi dicendo: “Il contenuto del fare, vale a dire ciò che facciamo, è tracciato via via dall’inconoscibile direzione dell’asse, che è stretta e diritta e non tollera giri tortuosi.”  Ma allora ci chiediamo, a questo punto, se vi sia un qualche grado di libertà di cui possa beneficiare la nostra condotta. A tale ormai inderogabile quesito l’autrice risponde col consueto tono perentorio: “Una volta sull’asse noi non siamo più liberi di andare e venire, in quanto è solo il sé che gode di questa libertà. Una condizione priva di scelta non conosce i comuni attributi della libertà; qui c’è soltanto la libertà dal sé, che si scopre non essere affatto libertà. Chi c’è, a essere libero? Chi c’è a scegliere e provare, a porre i traguardi e tracciare il sentiero? Chi era libero ormai è svanito e quello che resta cammina ora sull’asse, al pari di un albero che, privo di pensiero, deve crescere e vegetare secondo una direzione predisposta dalla sua natura, una natura tanto intelligente da restare per sempre totalmente inconoscibile alla mente umana. Così, sapere cosa fare o dove mettere i piedi è un problema che non esiste: quello che si deve sapere semplicemente c’è e quello che non si sa non c’è. In altre parole il ‘che fare’ è strutturato nell’asse stesso, così che il fare è identico al suo contenuto, a ciò che esso fa. Ed ecco che conoscere, vedere, fare sono uno e un solo atto senza alcuna frattura che li divida.” Finalmente, un barlume di luce squarcia la nube oscura che sinora percepivamo aleggiare sulle nostre teste, al punto che il seguito di quanto afferma Bernadette suona persino soave alle nostre orecchie:  “Ciò che un tempo creava la divisione tra il fare e il suo contenuto era il sé con tutte le sue scelte, i valori, i giudizi, le idee e tutto il resto, il sé che non salirà mai sull’asse né potrà mai trovarlo, poiché è bloccato da tutte le sue cosiddette libertà. (…) Su quest’asse ciò che è procede secondo una sicura, irrevocabile, inconoscibile direzione, col risultato che il conoscere e il fare coincidono. (…) Come questo possa accadere non so, ma (…) fa parte integrante della chiarezza di mente che diviene possibile una volta sull’asse: una volta che si diventa tutt’uno con ciò che è.” Tutt’uno con ciò che è. Le parole della Roberts non lasciano spazio ad equivoci.  Alla radice della perentorietà del suo discorso traspare tutta l’autorevolezza che può scaturire soltanto dall’avere visto fino in fondo. Per concludere questo commento, un’ultima considerazione sulla questione del valore e significato dell’illuminazione spirituale.  La Roberts l’ha indicato chiaramente, sebbene non l’abbia del tutto esplicitato: l’illuminazione comporta una perdita e nient’affatto – come a volte si potrebbe credere, in base ai discorsi che capita di ascoltare talvolta persino all’interno degli stessi circuiti dell’advaita contemporaneo – un guadagno.   La perdita del sé.  Desiderare di conseguirla significa voler perdere quelle (pur illusorie) poche “certezze” che crediamo di possedere.  Se tanti sedicenti “maestri spirituali” oggigiorno fossero sufficientemente chiari come lo è stata, anche su questo punto, Bernadette Roberts, sarebbe piuttosto improbabile che si ritrovassero  ad essere seguiti da numerosi - talvolta persino da uno stuolo di – proseliti e cercatori. E’ assai più probabile, invece, che per molti di costoro la ‘ricerca spirituale’ sia piuttosto un tentativo di fuga da ciò che è: una più o meno sottile manovra, o manipolazione psicologica, finalizzata a rafforzare il sé, anziché a perderlo. Mi pare che fu F. Nietzsche, che una volta disse: “ Quando guardi a lungo nell’abisso, l’abisso ti guarda dentro.”

nota biografica

* Bernadette Roberts è nata nel 1931 in California da genitori cattolici osservanti. Entrò nel monastero dei Carmelitani scalzi quando aveva diciassette anni, nel gennaio del 1949. Dopo otto anni e mezzo di vita monastica, lasciò il chiostro ed entrò all'Università dello Utah, dove per tre anni fu studentessa di medicina. Tornata a casa dei suoi genitori a Hollywood, in California, conseguì la laurea in Filosofia presso la “University of Southern California”. Per quattro anni avrebbe insegnato Fisiologia e Algebra presso una scuola superiore d’ispirazione religiosa di Los Angeles, dove incontrò e sposò un collega insegnante, dal quale ebbe quattro figli. Quindi la Roberts aprì una scuola “Montessori” presso Kalispell, nel Montana, nel 1969, dopo aver ottenuto le necessarie credenziali in Inghilterra. Nella sua scuola avrebbe sperimentato metodi di psicologia cognitiva dell’età evolutiva basati sugli studi di Jean Piaget.  Nel 1973 conseguì un master in educazione della prima infanzia presso la “University of Southern California”.  Nel 1976 il marito lasciò lei ed i figli; in seguito ella ottenne l’annullamento del matrimonio.  Negli ultimi quarant'anni frequentò prolungati ritiri presso i monaci camaldolesi sul “Big Sur”, in California. E’ morta nel 2017, nella sua casa nel sud della California, durante il sonno. La Roberts ha raccontato e dettagliatamente descritto la sua vita ed il suo cammino spirituale. Il suo “Autobiography of the Early Years” contiene un resoconto delle prime esperienze familiari e spirituali. Dopo anni di vita contemplativa avrebbe descritto l’evento che definì l'esperienza del non-Sé. In seguito alla pubblicazione del materiale relativo all’argomento la Roberts ha iniziato a ricevere dappertutto inviti affinché ne parlasse più approfonditamente.  Gli ultimi 30 anni di vita li dedicò a tenere ritiri annuali su "L'essenza della mistica cristiana".

**Vedi su questo stesso sito l'articolo "Introduzione alla non dualità"

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poesie e racconti brevi

Dalla Prefazione del volume

Non sono certo che ci sia un vero e proprio tema a fare da filo conduttore al presente libro.  O meglio, che ve ne sia uno e uno soltanto. Tuttavia la scelta, manifestata attraverso il titolo, di suggerire una tale possibilità di lettura, è scaturita in modo abbastanza naturale, direi privo di significative forzature. “Nulla di cui preoccuparsi” è inoltre l’ultima delle cose scritte, in ordine di tempo.   Così - per esprimerlo con un’azzardata proporzione metaforica - nel rivedere il materiale  confluito nella presente raccolta mi è sembrato che quel “monologo” breve stia a quanto lo precede come l’estuario di un fiume, ormai prossimo a confondere le proprie acque con quelle del mare in cui confluiscono, sta a tutto il suo sinuoso corso precedente. Il tema dell’identità gioca un ruolo centrale più o meno dappertutto, nelle poesie così come nei racconti proposti. Un argomento perennemente nevralgico - non soltanto letterariamente parlando – per quanto al contempo sempre assai elusivo, viscido e poroso. Persino nella descrizione delle vicissitudini di un animale (Diego) , agli occhi dell’osservatore può riverberarsi annosamente, tra il serio ed il faceto, un “problema di identità”: gatto vivo o gatto morto? domestico o selvatico?

Mauro Giuliani (1781-1829) è stato uno dei maggiori chitarristi italiani vissuti tra il diciottesimo e il diciannovesimo secolo. Virtuoso dello strumento, profondo conoscitore della cultura musicale del suo tempo, ha lasciato una copiosa produzione di composizioni per chitarra solista, per più chitarre, nonché tre concerti per chitarra ed orchestra. Altrettanto importante il suo contributo al consolidamento delle basi della didattica moderna. Il nutrito corpus dei suoi "Studi" è tutt’oggi considerato un complesso di esercizi fondamentali per il perfezionamento della tecnica esecutiva dei praticanti dello strumento. La musica di Giuliani è fedele ai canoni del classicismo, ricca di variazioni ed abbellimenti, generalmente lineare nello sviluppo dei temi portanti delle composizioni. Vi si respira un senso di leggerezza e trasparenza per la freschezza con cui si offrono all'ascolto. Giuliani nacque a Bisceglie, nella Puglia, allora annessa al regno di Napoli. All'età di ventisei anni si trasferì all'estero, stabilendo la sua residenza a Vienna, dove avrebbe trascorso parte considerevole della sua vita e dove ebbe modo di venire in contatto con le massime personalità musicali del suo tempo. A Vienna beneficiò della protezione dei regnanti, da cui venne nominato "virtuoso da camera" nonché insignito del titolo onorifico di Cavaliere del Giglio. Fu anche insegnante privato dell'arciduchessa Maria Luisa d'Austria. Benché non si sappia molto circa la sua personalità sembra che fosse vivace di spirito, dal temperamento inquieto e talvolta invischiato in questioni sentimentali che finivano sovente col ripercuotersi non felicemente sulle sue finanze, non meno che sulla sua vena creativa. Nell'ascoltare la sua musica attraverso le interpretazioni che ne hanno dato alcuni dei massimi chitarristi dell'attuale panorama musicale internazionale (tra i quali spiccano il cubano Marco Tamayo, il russo Dimitri Illarionov e lo spagnolo Ricardo Gallen) colpisce la modernità delle composizioni, con la loro capacità di dare espressione plastica a peculiari stati d'animo. Ad aperture talvolta solenni – come quella della Sonata Eroica op. 150 - seguono momenti intimistici ed introspettivi caratterizzati da una vena malinconica cui seguono, talvolta, gioiose impennate. Il non raro ricorso a successioni di 'ottave' ascendenti e discendenti conferisce alle composizioni un sapore sinfonico, mentre l'uso ricorrente di 'acciaccature' ed altri 'abbellimenti' immette un tono scherzoso, se non scanzonato, talvolta persino nei momenti musicali più impegnati.  Quello che però più stupisce in Giuliani è la capacità di strutturare anche nello sviluppo esiguo di uno 'studio' non più lungo di una ventina di misure   una coesione d'insieme di notevole eleganza ed efficacia - penso ad esempio al primo dei suoi 24 studi dall'op. 48, un'opera considerata tutt'oggi di cospicua  rilevanza didattica. La produzione strumentale di Mauro Giuliani è davvero vasta, anche se non tutta l'opera venne edita nel corso della sua non lunga vita - morì prima dei cinquant'anni. Vi confluiscono molteplici generi: dalla Forma Sonata all'intrattenimento di derivazione folclorica e popolare; dall'Ouverture alle Variazioni Concertanti su Temi orchestrali. Assai note, tra queste ultime,   le  “Rossiniane” e le “ Variazioni su un tema di Haendel ” nonché su quella  caratteristica concatenazione di accordi assai diffusa nel sedicesimo secolo e tutt'oggi nota come Follia di Spagna. Nonostante la varietà di forme di espressione, nella musica di Giuliani si coglie un’omogeneità di fondo nelle soluzioni stilistiche e armoniche che ne rendono inconfondibile la paternità musicale. Sensibile tanto al gusto dei cultori più raffinati del genere classico quanto alle esigenze di un'audience più estesa, egli ha interpretato in chiave solistica le più belle 'arie' tradizionali della cultura popolare - soprattutto quelle della scuola napoletana del suo tempo. Da ciò deriva la spiccata "cantabilità" di buona parte della sua opera.

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Sottoporre ad un’interpretazione qualunque opera d’arte – pittorica, poetica o narrativa poco importa – è un’operazione azzardata se non addirittura del tutto insensata.  Nel momento in cui lo facciamo è l’opera, piuttosto, che sta interpretando noi: rivelando silenziosamente, senza clamore ma con efficacia i pregiudizi e le tacite premesse che orientano l’interprete, rendendo possibile la sua lettura. Ciò resta valido a prescindere dal testo preso in esame: sebbene, specie in campo letterario, vi siano autori la cui scrittura è così elusiva e policentrica che una forzatura interpretativa pur minima risuona qui - più che altrove - come qualcosa di irritante e di puerile. Questo si manifesta in modo paradigmatico nel caso di Franz Kafka: un autore talmente puro da fungere da fedele cartina di tornasole per ogni velleità saggistica. Al discorso kafkiano è difficile aggiungere qualcosa senza sminuirne la potenza, l’incisività espressiva. Solo, forse, un confronto doloroso quanto fu per Kafka il confronto col silenzio che precede la nascita della parola creativa, con tutto il suo travaglio, potrebbe consentire di aggiungervi, al più, una dignitosa postilla. Tuttavia non ho mai incontrato Kafka quale mentore interiore : non ne ho mai avuto né l’onere né l’onore. Talvolta però lo presagisco, ne avverto il profumo: l’essenza di Kafka è troppo sublime per lasciar traccia di sé in forma più tangibile. Non si avverte mai nel suo discorso, sebbene l’intera opera ne sia satura, il peso di colui che narra. Kafka “non ha peso” non perché davvero non ne abbia ma in quanto non vuole averne: vuole essere un osservatore obbiettivo della vita. Vuole essere giusto. Il suo accanimento nel perseguire la Giustizia avrebbe fatto sì ch'egli se ne sentisse perseguitato per tutta la vita. Sicché proliferano, nella sua opera, figure di giudici e di avvocati, in una tormentosa vicenda che è al contempo esistenziale e letteraria, indistinguibilmente interiore ed esteriore. Bucefalo è uno di essi, in un racconto che non supera la ventina di righe e intitolato appunto: “Il nuovo avvocato”.

Bucefalo - per chi lo ignorasse - era il nome del cavallo di Alessandro il Macedone. Nel racconto di Kafka è un avvocato di recente nomina che s’aggira tra le stanze del tribunale. Bucefalo suscita simpatia e comprensione nella classe forense, anche perché i suoi componenti riconoscono che nell’ordinamento sociale di oggigiorno egli deve trovarsi in difficoltà poiché oggi, nessuno può negarlo, non esiste un Alessandro Magno.  Con poche parole Kafka tesse la trama che connette un passato storico ormai leggendario con un prosaico presente, ponendo in essere un’oscillante andirivieni tra differenti piani di realtà: tra immaginazione /memoria storica ed attualità. Bucefalo è così al contempo uomo e animale e - come accade sovente in Kafka – la duplicità nella sua natura lascia fatalmente in sospeso il tema dell’imputabilità,  della responsabilità etica e morale del soggetto. Se ieri era solo un cavallo, per quanto alle dipendenze di colui che è ricordato come uno dei più grandi imperatori di cui si abbia memoria storica, oggi è un essere umano, un avvocato dai fianchi non oppressi dalle reni del cavaliere, che, immerso nei testi di legge alla quieta luce di una lampada, ha ormai abdicato ad antichi sogni di conquista e di gloria. Si direbbe così finalmente ‘risolto’ a favore del primo, il perenne conflitto - non solo kafkiano - tra pensiero e azione: un’azione peraltro inesorabilmente intaccata dall’incertezza circa la giusta direzione da seguire, dalla mancanza di una  guida  – il cui carisma sia paragonabile a quello dei grandi condottieri del passato – che  sia all’altezza degli impossibili compiti posti dalla vita ad una creatura vieppiù interiormente divisa, scissa, quale si presenta Kafka/uomo moderno.   Posseduto in prima persona dal tormentoso senso di colpa che accompagna una tale perdita, lo scrittore praghese fa apparire “poca cosa” la relativa libertà acquisita in cambio, prevalendo un’amara ironia e quel senso di ripiego che qui – come altrove nella sua opera – infine aleggia:

“Perciò è forse miglior partito d’imitare Bucefalo e di sprofondarsi nella lettura dei codici (…) lungi dal clamore della pugna alessandrea …

Kafka non sarebbe Kafka senza un tale lacerante conflitto, che può riverberarsi    nel lettore solo in quanto - in fondo - è il suo stesso conflitto. Infranti gli antichi idoli resta nell’anima dell’uomo un senso di vuoto che nulla sembra essere in grado di colmare. Profeta del suo tempo, lo scrittore ha espresso mirabilmente un tale stato di cose. Voler ricondurre la “questione kafkiana” - come è stato fatto talvolta da certa  critica specialistica "psicoanalitica"- ad una problematica semplicemente personale di rapporto con l’autorità paterna equivale a fraintendere la portata collettiva, universale ed esistenziale che essa sottende. Equivale a tradirne lo spirito.

Il potere ‘assoluto’ del terapeuta*

Secondo l’autore di questo datato ma ancora attualissimo volume, alla base di una scelta particolare come quella di chi svolge una cosiddetta professione d'aiuto c'è sempre in gioco un'idea, una premessa, un modello generale che può essere rappresentato dall'archetipo del guaritore. Con il modello del guaritore viene a trovarsi in relazione chiunque abbraccia nella propria vita, e non solo professionalmente, il compito tutt'altro che leggero di assistere, guarire, curare. Da una parte c'è l'essere umano malato, stressato, esaurito, incapace di far fronte alla vita; dall'altra l'essere umano che si presume abbia la capacità di lenire e guarire. L'interesse di un individuo che sceglie una professione d'aiuto deriva quasi sempre dalla consapevolezza, a volte più chiara a volte meno, che in ogni vita umana alberga la possibilità della malattia, del malessere, dello smarrimento. Questa consapevolezza coinvolge un tale individuo al punto da motivarne la scelta professionale poiché curando, aiutando, assistendo ... egli si sforza di fronteggiare la propria stessa ferita, la propria ansia, la propria paura.    Il potere e tutte le relative problematiche subentrano quando una tale persona, investita dalla società che gli conferisce un titolo professionale che ne sancisce le competenze acquisite nel corso di un più o meno lungo processo di formazione, dimentica queste premesse e giunge a sentirsi superiore al suo interlocutore - che sia denominato paziente, assistito, cliente, ecc. - tramite la convinzione più o meno completa che il suo dominio possa estendersi fino al dominio totale dell'angoscia, o della malattia in sé. In queste condizioni, qualunque dubbio o affermazione proveniente dal paziente rappresenterà sempre per il terapeuta il dubbio o l'affermazione di qualcuno che ha la mente o il fisico debilitati, o comunque di un incompetente, di un non addetto ai lavori, che quindi non può essere preso del tutto sul serio. Se così stanno le cose diventa fondamentale per il professionista della salute conservare la memoria della sua "ferita", e la consapevolezza che, nel curare gli altri, egli sta in realtà trattando non soltanto con l'altra persona ma anche con la propria malattia, con il proprio malessere personale ed esistenziale. Più chi presta aiuto crede di esser sano, e che il "guasto" sta solo in chi gli sta di fronte, più cresce la distanza tra sé e l'altro, e con essa si approfondisce la scissione tra i due poli dell'immagine del guaritore-ferito che è alla base del suo operato. L'immagine del guaritore deriva storicamente in parte dalla medicina e in parte dalla religione. Il "giuramento di Ippocrate", che ciascun futuro medico è tenuto a prestare in ragione del suo mandato professionale, afferma tra le altre cose che il medico "baderà soltanto alla salute degli infermi rifuggendo ogni sospetto di ingiustizia e di usare corruzione". Una simile premessa dovrebbe garantire che colui che si trova investito del compito di curare il proprio prossimo eviti di agire da ciarlatano: ciarlatano è quel medico che per acquisire prestigio e/o vantaggi economici non esita a ingannare i propri pazienti e a volte persino sé stesso, inducendoli a credere nell'efficacia delle proprie cure anche laddove queste, spesso, non hanno sufficiente fondamento scientifico. L'altra vocazione che sta alla base di una scelta professionale orientata all'aiuto del prossimo, è rappresentata dalla figura del sacerdote. Il lato oscuro di questa nobile immagine è, al pari del medico ciarlatano, quello dell'ipocrita e bugiardo che non predica perché ha fede ma per acquistare influenza e potere. Il compagno inseparabile della fede è il dubbio, ma nessuno vuole trovarlo in un sacerdote - ne abbiamo abbastanza per conto nostro - e così spesso questi non ha altra alternativa che fingere, nascondere le proprie incertezze, magari mascherando con parole alate un momentaneo vuoto interiore. L'ombra del falso profeta accompagna così il sacerdote per tutta la sua vita. Dunque nelle professioni d'aiuto non si ritrovano soltanto le immagini nobili della medicina e della religione ma anche i loro aspetti d'ombra: il ciarlatano e il falso profeta.

Per concludere ...

Cosa spinge un individuo a preoccuparsi del lato oscuro della vita sociale?    Deve trattarsi senz'altro di una persona di tipo particolare: l'individuo medio, comune, preferisce infatti ignorare e dimenticare le disgrazie e le sofferenze del  suo prossimo quando queste non lo toccano direttamente, o almeno preferisce averci a che fare di rado, a sufficiente distanza, leggerle cioè nei giornali o vederle alla televisione. Solo un numero piuttosto ristretto di persone si occupa di entrare in contatto diretto con i guai altrui, la maggior parte ne ha abbastanza dei propri. Se diciamo semplicemente che coloro che svolgono professioni di aiuto sono esseri benedetti da un più grande amore per il prossimo non risolviamo nulla, poiché non è vero, e d'altronde non tutti sono cristiani osservanti mossi dalla convinzione che l'amore verso il prossimo, manifestato aiutando gli infelici, sia il principale comandamento divino. Devono essere persone dalla struttura psicologica molto speciale quelle che scelgono come lavoro il confronto quotidiano con alcune delle polarità fondamentali dell'uomo: adattamento-disadattamento, successo-insuccesso sociale, salute-malattia. Chi esercita una professione assistenziale ne è certamente più affascinato di altri per motivi soggettivi che ne influenzano l'operato tanto più quanto meno, di essi, se ne è consapevoli.

(*) Parte consistente del presente scritto, pur non risultandone espressamente indicati i passaggi e le citazioni relative, è tratta direttamente dal testo recensito.

La prima parte di questo lavoro è un'indagine riguardo le influenze che sul pensiero di R.D. Laing avrebbero esercitato alcuni maestri della Psicoanalisi, specialmente sulle sue concezioni più progressiste concernenti il tema della "malattia mentale". Influenze non sempre sufficientemente esplicitate e riconosciute, anzitutto dallo stesso Laing.  Di qui il titolo del libro. Il riferimento all'ombra ha tuttavia un'ulteriore dimensione di senso: se da un canto indica infatti il destino, all'interno del suo pensiero, del contributo intellettuale di coloro che furono i suoi maestri, dall'altro caratterizza, almeno in parte, quanto occorso alla sua stessa opera, oggetto di un crescente "adombramento" messo in atto dall'establishment psichiatrico e psicoanalitico, e più in generale da quegli ambienti che tutt'oggi professionalmente si occupano di malattia mentale. Anche questi aspetti vengono qui discussi, nella seconda parte, seguendo un variegato itinerario in cui al resoconto di esperienze vissute nell'incontro con il carismatico maestro, il personaggio Laing - narrate da  uno degli Autori - si alternano riflessioni sul complesso e al contempo innegabile rapporto che emerge tra la vita e l'opera dello psichiatra scozzese. Un rapporto di cui recano testimonianza soprattutto gli scritti di carattere più intimistico (quali "I fatti della vita" e "Conversando con i miei bambini") pubblicati da Laing quando era ancora all'apice della sua fama, ovvero poco prima dell'inizio del tormentato declino che ha caratterizzato - a partire dalla metà degli anni '70 sino alla sua morte avvenuta nel 1989 - la parabola umana ed esistenziale di una delle personalità comunque più affascinanti e significative per la cultura e la prassi delle “scienze sociali” del XX° secolo.

L'idea di creatività evoca il senso del nuovo, del diverso, dell'epifania di qualcosa che  rompe con ciò che è noto, col passato. In realtà, - come un'innumerevole varietà di studi psicologici condotti sul tema della creatività, soprattutto in quella sua declinazione specifica che viene definita in ambito cognitivo come insight, hanno mostrato - creare è piuttosto dare una nuova forma ad elementi preesistenti che vivevano in maniera irrelata, sparsa - per così dire - poiché il processo creativo è piuttosto un processo di unificazione, di sintesi. Un processo tanto “erotico” quanto “ermetico”, dunque, se si considera che Eros ed Ermes erano le divinità, nel mito greco, preposte a stabilire connessioni. Se così stanno le cose, è necessario rivedere quell'immagine che suggerisce, talvolta persino spinge, ad una certa violenza, in nome dell'essere creativi. In altre parole la creatività forse non è affatto in antitesi col bisogno di continuità, che pure condiziona il nostro vivere quotidiano, testimoniando di sé attraverso la ripetizione, l'abitudine, la conservazione e la protezione di quanto sinora è stato. Del passato. Si può allora immaginare che proteggere, custodire, restaurare ... siano azioni che piuttosto contribuiscono al processo creativo, alla configurazione di un avvenire - un'intuizione che spazza via d'un solo colpo tutte le più o meno grossolane antitesi che il pensiero opera tra l'idea di progresso e quella di regresso, così come tra passato e futuro, tra eroi conservatori della cultura ed eroi innovatori ... Anche l'idea che il processo creativo implichi necessariamente qualcosa di trasgressivo ne sortisce depotenziata, almeno nella sua connotazione forte, evocativa di chissà quali prodezze, di superamento di ostacoli e di tabù. Il tabù di fondo risulta essere piuttosto, se osservato da una certa angolatura, il pieno riconoscimento di una disarticolazione, di un nesso mancante. Di un vuoto di relazione. Il processo creativo può essere allora descritto come un'azione dell'amore che colma, che sana e riempie quel vuoto, configurando nuove connessioni. Qui si unificherebbero una molteplicità di strade. Non senza ripercussioni anche - soprattutto - sul linguaggio. Non perché debbano necessariamente fare la comparsa parole nuove, nuove forme di espressione  o nuove concezioni: talvolta è sufficiente che cambino il tono, la risonanza, la pienezza, di quelle vecchie. Accade allora che le vie dell'affettività e dell'intelletto (ancora, qui, parliamo di amore e psiche) tornino ad intersecarsi. Ci vorrebbero studi che approfondissero la conoscenza del rapporto che sussiste tra tono, espressione, risonanza - caratteristiche che definiscono l'aspetto emozionale, non verbale, della comunicazione tramite parole - ed il loro significato letterale - secco, per così dire – supposto che un tale significato possa realmente sussistere. Forse si scoprirebbe che non c'è soluzione di continuità tra questi due aspetti, collimando con l'esperienza che ciascuno di noi ha ripetutamente fatto di quanto, all'interno di un dialogo tra due interlocutori, il significato delle parole talvolta conti assai poco, risultando viceversa decisivo l'elemento relazionale, espressivo-emozionale. Meglio un vocabolario povero di parole ma ricco di anima*, si potrebbe essere tentati di commentare in forma aforistica. Poiché non è tanto il vocabolo a configurare un significato quanto quell’ineffabile fattore al contempo emozionale e relazionale per il quale non trovo una parola migliore di questa. Dunque non la mia o la tua anima. E neppure la nostra. Poiché l'anima non è un possesso, sebbene talvolta se ne parli come se lo fosse.

* Si rimanda al breve scritto, contenuto in questa stessa sezione, intitolato Che cos’è la psicoterapia?

Si sente frequentemente parlare di forme specifiche di psicoterapia: da quella psicoanalitica a quella cognitivo-comportamentale; dalla umanistica alla sistemico-relazionale - solo per citare alcune delle tipologie oggigiorno più diffuse. Più di rado invece ci si sofferma semplicemente sul significato della parola stessa: psicoterapia. E' quello che faremo qui, brevemente, ritenendolo un'utile riflessione preliminare alla scelta della giusta terapia psicologica. La parola psicoterapia risulta dall'unione di due termini distinti: quelli di psiche e di terapia. Quelle di Terapia psicologica, o della psiche, risultano pertanto essere definizioni concise e pertinenti del termine "psicoterapia". Ma che cosa significano, a loro volta, "terapia" e "psiche"?L'etimologia di "terapia" rimanda al greco therapéia, derivante a sua volta da "therapéuein", ovvero "curare". Originariamente il termine era utilizzato tuttavia non solo in ambito medico, ma anche per indicare il "servizio religioso" reso alla Divinità attraverso il rituale e il culto, così come quello reso alla natura attraverso la coltivazione del terreno. Anche la parola “psiche” ha radici mediterranee, stando ad indicare in greco l'anima (psychè), ovvero quel "soffio vitale" - rappresentato talvolta come un'animaletto alato, spesso una farfalla - che caratterizzerebbe l'esistenza di tutto ciò che si evolve nascendo, crescendo e morendo, al cospetto di quanto si limiterebbe ad esistere in una forma intrinsecamente immobile e statica, sempre uguale a sé stessa - dunque disanimata. Fare della "psicoterapia” significa pertanto, letteralmente, prendersi cura dell’anima. Inevitabilmente viene da pensare all'ambito religioso, quando si parla di "cura dell'anima". Oggigiorno, tuttavia, quello di psicoterapia è diventato un termine che evoca un sapere specifico e circoscritto di tipo medico-scientifico, in un senso che tende pertanto ad occultare la radice di quanto esso era imputato originariamente a designare. Difficile immaginare un'antitesi più grande di quella esistente tra un ambito come questo e quello di tipo religioso, considerando anche l'etimologia stessa della parola religione: raccogliere, unire, collegare. Eppure psiche, lo ribadiamo, significa letteralmente proprio questo: anima. Ancora oggi, comunque, nel linguaggio laico di uso quotidiano, si parla talvolta di anima per indicare l'essenza di qualcosa; ed è in tal senso che possiamo intendere tale termine. E' da qui tuttavia che le strade iniziano a divergere, e che subentra quella che ai profani può apparire come la confusione, la babele dei linguaggi delle svariate forme odierne di psicoterapia: poiché ciascuna di esse riflette un'accezione particolare, una certa maniera di intendere l'anima - o l'essenza - della questione o del problema che è oggetto dell'attenzione del terapeuta nei confronti del suo paziente. Ogni specifico tipo di approccio psicoterapeutico colloca infatti tale "essenza" in un contesto definito, che diventa così l'oggetto privilegiato della sua indagine e del suo campo d'azione: come ad es. quello delle relazioni inter-personali e intra-familiari per l'approccio sistemico-familiare, oppure quello dell'interiorità e delle relazioni intra-psichiche (sino al cosiddetto in-conscio), per chi sia fautore di un approccio di tipo psicoanalitico o più genericamente psicodinamico; oppure quello del comportamento esteriore e visibile, per chi si attenga ad un modello cosiddetto comportamentistico. Per la scelta della terapia giusta non è pertanto in questione solo il tipo di problematica che affligge la persona, ma anche - soprattutto - un fattore di affinità psicologica, rispetto ad un certo modello di cura e di intervento.

 

 

Il pianista Jazz Bill Evans (1929-1980) era originario di Plainfield (New Jersey). Si narra che fosse uno spirito conservatore, dall'aria frequentemente assorta, obbediente alle regole e assai “serio” benché, al contempo, acutamente ironico. Amava rimaneggiare “arie” musicali relativamente semplici, come quelle delle “standard songs” più diffuse e ascoltate nel panorama della musica d'intrattenimento colto del suo tempo: quelle di autori quali Bacharach, Hart, Young, Gillespie e altri esponenti del jazz americano tra gli anni 50'  e 60'. Un autore, Evans, che col suo pianoforte raccontava "storie". Storie di amori falliti, di tradimenti, di attese deluse; di speranze che reggono vite sospese al filo d'illusioni perennemente destinate a subire lo scacco di una realtà sempre troppo dura e prosaica, per le esigenze del poeta e del sognatore. Rannicchiato come un feto, o ingobbito - sembrerebbe - dal peso di ruminazioni schiaccianti, possiamo osservare tutt'oggi Bill Evans al piano, nei video pubblicati su youtube, mentre sciorina le sue “storie” - romanze senza parole - che raccontano più di un'infinità di parole.

Per i cultori del jazz, Evans passerà alla storia soprattutto per l'originalità insuperata nel voicing: la scelta dell'altezza tonale nella disposizione delle note all'interno di un accordo. Per coloro che si limitano ad abbandonarsi all'ascolto delle sue “storie” resterà l'esempio di una meravigliosa voce narrante, per la musicalità dei silenzi tra le note ed un lirismo che fa tacere d'incanto il chiacchiericcio della mente, della critica e del commento. Molto si è detto e si è scritto sulla personalità di Evans: sul suo temperamento inquieto, sull'abuso di eroina che lo condusse ad una prematura consunzione, nonché sulla sua estrema “introversione”, che avrebbe trascinato in baratri di desolazione l'esistenza delle donne ch'ebbero in sorte di essergli compagne. Quel che oggi resta è la sua musica: una viva testimonianza di quanto la creatività possa prescindere da eclatanti cambiamenti di stile e di forma in nome dell'imperativo "essere al passo coi tempi", concernendo piuttosto una ricerca, un'elaborazione profonda entro una gamma limitata e ristretta di modalità d'espressione*. Ascoltando, dalle prime alle ultime, le sue interpretazioni di 'classici' e le composizioni originali si ha l'impressione che il discorso evansiano - il suo tema - resti sempre lo stesso, benché soggetto ad innumerevoli variazioni: come un sogno ossessivo, fissato da immagini tenue e al contempo incalzanti, che sembrano riecheggiare all'infinito sempre la stessa domanda - lo stesso  estenuante, dilemmatico, metafisico "perché". Non sappiamo - forse non sapremo mai - quale fosse la radice dell'inquietudine esistenziale di un uomo di cui s'è detto che "aveva tutto" - fascino, prestanza fisica, cultura, doti artistiche, intelligenza - e che nondimeno sempre ispirava in coloro  che lo circondavano un sentimento di intima, profonda infelicità.

Della vita di Evans scegliamo di ricordare, tra i tanti narrati e tramandati, un episodio che illumina il contrasto che caratterizzava la sua personalità da quella di un altro personaggio del mondo musicale a lui coevo, Miles Davis. Un giorno Evans e Miles Davis si ritrovarono assieme in sala di registrazione, per incidere alcuni brani che sarebbero stati poi pubblicati sotto il nome dell'etichetta discografica del gruppo di Davis. Ad un certo punto delle prove Davis, con la sua voce roca ed il consueto linguaggio colorito espresse ad Evans quello che si aspettava da lui in una circostanza del genere, più  o meno in questi termini (**):

"Bill, ok ... ci siamo ... è tutto ok ... il suono, gli stacchi ... le dinamiche ...però .... vedi ... Bill ... il fatto è che vorrei più ... ecco vorrei che ... che ti facessi il gruppo ...sì, Bill ...devi farteli di più tutti quanti ... loro non aspettano altro, Bill ...solo così può funzionare davvero, credimi ..."

Dopo un lungo intervallo di tempo, con un tono serio e a bassa voce, Evans avrebbe replicato:

" Miles ... capisco quello che intendi ... ma ... credimi ... proprio non ce la faccio ...  anch'io vorrei ... ma ... non ce la faccio a ... piacere ... a tutti ... mi dispiace, Miles ...."

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(*) In proposito si rimanda all'articolo "Su creatività e continuità", contenuto nella sezione "Immagini e parole".

(**) Tratto da "Miles. L'autobiografia ", di M. Davis e Quincy Troupe, 1989,                 (trad. it. Minimum fax, 2001)