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il nocciolo del messaggio non duale: consustanzialità degli opposti

"che la voce del diavolo non sia che l’eco di quella divina?”

Se mi si chiedesse di esprimere nel modo più sintetico il “nocciolo” del messaggio non duale lo riassumerei così: non c’è alcuna posizione fissa, stabile; oppure: tutto è in perpetuo divenire¹.

Ma perché un messaggio che sostiene qualcosa di così “ovvio” e “scontato” è sempre tanto “straordinario” e “sorprendente”? Anzitutto va detto che già qualificandolo con aggettivi di qualsivoglia natura, si suggerisce un qualche … collocamento. Si potrebbe inoltre obbiettare:  “straordinario e sorprendente perché e/o per chi?”

Il fatto è che se “giro e rigiro” intorno alla questione - se continuo a tornarci su di continuo -  è perché questa cosa è davvero magica, è veramente straordinaria. Solo se ci si prende lo scomodo di fare un po’ attenzione, di osservare in silenzio il continuo movimento del pensiero, del sentimento, delle sensazioni e delle emozioni che sorgono ininterrottamente nello spazio che convenzionalmente si definisce “mentale” – ma che poi, a ben vedere, è assolutamente sconfinato -, solo allora si può iniziare a stimare la bontà di quanto affermato. Una domanda sorge, allora, spontanea: perché questa “meraviglia” alle volte si eclissa - viene cioè perduta - e a quel punto ha inizio la ricerca di “qualcosa”  (qualunque cosa)? Non vorrei cavarmela, stavolta, con la solita risposta (“e perché ciò non dovrebbe accadere?”) non perché sia sbagliata, ma perché talora suona posticcia; come una scappatoia di comodo per non affrontare fino in fondo la questione. “Ci dev’essere un motivo per cui persino un’ eclissi di sole talvolta accade”, asserisce la ragione. E noi la conosciamo. Basta guardare nel cielo! Quand’è che si eclissa il sole?  Se ci sono delle nubi, oppure (sebbene certo più di rado) se si frappone la luna. In ambedue i casi, perché sorge un “velo” di separazione tra il mio occhio e la sua luce. Così è per la mente. Quando si eclissa la presenza? Quando sorgono pensieri, sentimenti, emozioni, stati d’animo … che mobilitano una reazione apprezzabile; che hanno cioè il potere di interrompere apparentemente la comunione tra “me” e tutto il resto (questa è una possibile definizione di presenza).

Ma non è forse questa medesima “irruzione” del “negativo” parte dell’intero gioco? Solo con la “mia” definitiva scomparsa potrebbe cessare l’eclissarsi della “presenza”. Ah… se soltanto il “me” potesse  arrivare a realizzare che proprio la sua fine - la sua  morte - inaugura il sorgere d’una luce perenne …! Ma ciò tuttavia - pure se accade – sovente non è qualcosa di definitivo, poiché il senso di separazione – ovvero il senso del me - è esso stesso intermittente, in modo del tutto incontrollabile! Si può allora dire che è proprio per via dell’assoluta, incondizionata libertà (vitalità) del tutto che le  cose stanno come stanno.  

I patimenti del “me” (i “miei” patimenti) non hanno termine, finché sussiste un senso di separazione, e non ci sono sforzi che possano porre fine ad una tale condizione. Se ciò è realizzato - ovvero riconosciuto senza più alcuna riserva - allora … è fatta. Un indizio del “traguardo” raggiunto tuttavia non può esserci, poiché davvero tutto è in perpetuo divenire. Per questo nessuno può dirsi illuminato. Cionondimeno, coll’assestarsi del riconoscimento della consustanzialità degli opposti (di bene e male, bello e brutto, ecc.) possono accadere - e accadono - cose davvero …“meravigliose”.

L’apprensione svanisce, un senso di affetto e di profonda gratitudine inizia a pervadere l’esistenza. Insorge una “presenza di spirito” che scioglie o corrode sul nascere quelle “nubi” e quegli “addensamenti” che - pur’ essi insorgendo - velano, talvolta, la luce del sole.

¹ A seconda poi che nella proposizione l’accento cada su “perpetuo” o su “divenire” avremo rispettivamente “posizioni filosofiche” solo apparentemente (e logicamente) contrapposte e inconciliabili tra loro, come quella di un Parmenide o di un Eraclito. 

Considerazioni su alcuni aspetti del messaggio non dualistico
Michela Guidotti, "Un pugno di mosche"

E’ difficile parlare di “non dualità” senza trasmettere l’impressione di non avere nulla da offrire, lasciando chi legge o ascolta con la sensazione di ritrovarsi - in un certo senso - con “un pugno di mosche”. Anzi, se ciò non accade, è perché forse si sta parlando impropriamente, di “non dualità”. Ma perché - è lecito chiedersi - la sensazione di rimanere con un pugno di mosche “deve” accadere? Se non accade, significa che si sta alimentando un'illusione di fissità, di una posizione definita, mentre "non dualità” indica proprio l’inconsistenza di qualunque posizione definita. Ciò frustra sistematicamente il desiderio di pervenire a una qualche certezza, se si eccettua la certezza dell’incertezza.

Di solito questo a nessuno piace. Dovrebbe conseguirne che sia meglio tacere, ovvero evitare di parlare di “non dualità”, se non si vuol rischiare di essere “disturbanti”. Tuttavia non sempre restare con un "pugno di mosche” è un’esperienza spiacevole.  Può essere, al contrario, un’esperienza liberatoria - seppure fugace ed evanescente, poiché non basta una piccola crepa tra le mura di una stanza buia, attraverso cui filtri qualche raggio di luce, a render le cose chiare e ben visibili al suo interno.

Il messaggio “non duale” toglie la sensazione della solidità del terreno su cui poggiano i piedi. Può pertanto generare un senso di vertigine*. Essendo "destrutturante" può sembrare “nichilistico” sebbene non lo sia, poiché non sostiene alcuna posizione antitetica nei confronti di posizioni "edificanti". Tuttavia è letteralmente “disperante”, in quanto mina alle fondamenta la speranza, l’illusione che “ci sarà un tempo a venire” migliore o più propizio di questo - di ciò che è.

Non vi è alcuna esortazione a “fare qualcosa”, ma non c’è neppure nel senso opposto, a “non fare nulla”, quando è riconosciuto che si tratta in ambedue i casi di accadimenti, senza effettiva scelta da parte di qualcuno. Questo aspetto è nevralgico per discernere l’autentica “non dualità” da svariati messaggi pseudo "non duali” in cui - a volte più espressamente, a volte meno - tende a prevalere un atteggiamento esortativo, persino direttivo**. Un enunciato corretto non sarà inquinato da simili tendenze manipolatorie in quanto nessuno lo enuncia, poiché non c’è alcun “guru”.

Infine, a dispetto di quel che può sembrare accadere sul piano della storia di qualcuno - ovvero nello spazio e nel tempo - nessuno "torna" una seconda volta dallo stesso “maestro” di “non dualità”.

Come disse il vecchio Eraclito***:   

                    “Non ci si può immergere due volte nello stesso fiume”   

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*Si rimanda alla videointervista in cui M. Bergonzi parla della sua esperienza in occasione dell’incontro con Nisargadatta Maharaj http://www.asia.it (https://youtu.be/C4_Ls8PdALY?t)

**Come, ad esempio, quando si raccomanda di “coltivare la presenza”

***Cit. Platone, “Cratilo”, 402 A