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la malattia dal punto di vista della non dualità

"Lo specialista non può vedere l'intero" (Jiddu Krishnamurti, Taccuino Spirituale)

Estrazione della pietra della follia, H. Bosch, c. 1494

In questi giorni mi è capitato di (re)imbattermi nel libro di T. Dethlefsen e R. Dahlhe intitolato “Malattia e destino” (Edizioni Mediterranee, 1986). Non lo riprendevo in mano da anni, da ben prima che scoprissi la non dualità. Ora ho potuto apprezzarlo meglio di quanto abbia potuto fare in passato. Gli autori del volume in questione – già dal sottotitolo¹ – discorrono circa il “messaggio” che conterrebbe la malattia - qualunque tipo di malattia, al di là della distinzione - di derivazione cartesiana - tra malattie psichiche e malattie somatiche.

Ma esiste realmente qualcosa come la malattia? Non ci sono forse soltanto sofferenza, dolore, afflizione? Quella di malattia è essenzialmente un’idea – rappresentazione o immagine – che crea la mente separata, indistinguibile dal senso di separazione, dal senso di “me”. Se non c’è un senso del me - se non c’è l'illusione della separazione – non c’è alcuna malattia; c’è solo ciò che è ovvero – almeno nei casi in cui si parla di malattia - : sofferenza, dolore, afflizione. E’ importante comprenderlo. La parola "malattia" evoca sempre l’idea di un’entità per quanto “naturale” dotata di intenzionalità, scopo, significato ecc. In altre parole è il riflesso speculare, non riconosciuto, del senso di separazione. Lo vediamo anche da come la “malattia” viene aggettivata nel linguaggio comune, che spesso la descrive come un nemico da disarmare o da distruggere (in questi giorni è quanto mai evidente quando si parla del famigerato coronavirus).

Ci può essere malattia se non c’è separazione? Gli autori del libro in questione parlano giustamente del fatto che non si soffre di “malattie” al plurale quanto piuttosto di una sola “malattia” che infine sfocia, inesorabilmente, nella morte dell’organismo corpo-mente. Tuttavia non vanno davvero a fondo, alla radice della questione, al punto di mettere in discussione l’idea stessa di malattia. Ora, qualche lettore potrebbe storcere il naso pensando che qui si intenda negare un fatto innegabile, un’evidenza. Ma in effetti dobbiamo chiederci: esiste la malattia come qualcosa di separato dall’apparente accadere dell’esistenza?

Queste sono considerazioni della massima importanza, aventi implicazioni decisive anche sul piano della prassi - cioè del che fare dinanzi alla sofferenza. Se infatti quella di malattia è una credenza, come lo è quella dell’esistenza di un me separato, riconoscerla in quanto tale potrebbe implicare non dare corpo al male (sic!) proprio evitando di oggettivarla. Dalla prospettiva non duale non ci sono né una psiche né un corpo malati ma piuttosto un fraintendimento - o mancato riconoscimento - di ciò che è. E’ certo lecito – anzi, assolutamente doveroso - fare il possibile per dare sollievo alla sofferenza, che sia la propria o quella altrui poco importa. Ma è altrettanto importante comprendere che reificando il male tramite l’assunto dell’esistenza della malattia intesa come entità oggettiva, non si può neppure concepire una guarigione che non contempli una morte intesa nel senso parimenti oggettivo del termine.
La guarigione è la fine del senso di separazione². Con la fine del senso di separazione viene meno anche ogni male inteso come entità distinta, separata dal tutto. Gli autori del libro in questione tuttavia non sembrano orientati a contemplare la possibilità che sussista una differenza tra morte del corpo fisico e fine del senso di separazione. E’ chiaro che se solo con la cessazione delle funzionalità corporee venisse meno il senso del me non potrebbe esserci “guarigione” senza la morte fisica³. Accade che alla fin fine, nonostante le loro migliori intenzioni (o proprio a causa di esse?!), gli autori approdino ad una visione iper moralistica della sofferenza: sei malato perché fraintendi te stesso, non sei abbastanza consapevole, non sai decodificare il messaggio racchiuso nel male ecc. Si arriva così al culmine della celebrazione del culto dell’io, concomitante con la sua spietata - al contempo alquanto ipocrita – colpevolizzazione. Non è strano, date le premesse, che col tempo i due autori/studiosi si siano fatti promotori della fondazione di svariati centri terapeutici c.d. “olistici” tuttora sparsi in giro per il mondo i cui programmi curativi contemplano, a fronte delle più svariate afflizioni, una congerie di metodi specialistici comprendenti di tutto: da diete mirate, digiuni completi e terapia della reincarnazione all’ipnosi regressiva, meditazione trascendentale ecc. Alla fine un fantasma, non riconosciuto in quanto tale, sempre si palesa in qualche visione/azione propositiva e assertiva, a fronte di un’esistenza beffardamente sfuggente⁴.

E’ difficile rinunciare alla speranza di cavarsela senza alcun merito, senza alcun esercizio di virtù personale, senza disciplina, senza nessuno sforzo… In altre parole è difficile aprirsi veramente al nocciolo del messaggio non duale. Del resto … è proprio impossibile, poiché davvero non c’è alcun io separato! Chi, pertanto, potrebbe “aprirsi” e a cosa ?!?


¹ Che recita: “Il valore e il messaggio della malattia
² E non della separazione, che è totalmente illusoria.
³ Questo è l’approdo cui perviene la prospettiva platonico-socratica, per la quale il corpo altro non è che "prigione" dell’anima. Un punto di vista che si riflette nelle parole di Socrate il quale con serenità sublime (stando almeno al resoconto platonico) dopo avere ingerito il veleno mortale, avrebbe detto: “Ricorda, Critone, che dobbiamo un gallo ad Asclepio” essendo, quest’ultimo, il dio greco preposto alla guarigione.
⁴ “Dio è un comico con un pubblico che non ride mai” (T. Parsons)

Si sente frequentemente parlare di forme specifiche di psicoterapia: da quella psicoanalitica a quella cognitivo-comportamentale; dalla umanistica alla sistemico-relazionale - solo per citare alcune delle tipologie oggigiorno più diffuse. Più di rado invece ci si sofferma semplicemente sul significato della parola stessa: psicoterapia. E' quello che faremo qui, brevemente, ritenendolo un'utile riflessione preliminare alla scelta della giusta terapia psicologica. La parola psicoterapia risulta dall'unione di due termini distinti: quelli di psiche e di terapia. Quelle di Terapia psicologica, o della psiche, risultano pertanto essere definizioni concise e pertinenti del termine "psicoterapia". Ma che cosa significano, a loro volta, "terapia" e "psiche"?L'etimologia di "terapia" rimanda al greco therapéia, derivante a sua volta da "therapéuein", ovvero "curare". Originariamente il termine era utilizzato tuttavia non solo in ambito medico, ma anche per indicare il "servizio religioso" reso alla Divinità attraverso il rituale e il culto, così come quello reso alla natura attraverso la coltivazione del terreno. Anche la parola “psiche” ha radici mediterranee, stando ad indicare in greco l'anima (psychè), ovvero quel "soffio vitale" - rappresentato talvolta come un'animaletto alato, spesso una farfalla - che caratterizzerebbe l'esistenza di tutto ciò che si evolve nascendo, crescendo e morendo, al cospetto di quanto si limiterebbe ad esistere in una forma intrinsecamente immobile e statica, sempre uguale a sé stessa - dunque disanimata. Fare della "psicoterapia” significa pertanto, letteralmente, prendersi cura dell’anima. Inevitabilmente viene da pensare all'ambito religioso, quando si parla di "cura dell'anima". Oggigiorno, tuttavia, quello di psicoterapia è diventato un termine che evoca un sapere specifico e circoscritto di tipo medico-scientifico, in un senso che tende pertanto ad occultare la radice di quanto esso era imputato originariamente a designare. Difficile immaginare un'antitesi più grande di quella esistente tra un ambito come questo e quello di tipo religioso, considerando anche l'etimologia stessa della parola religione: raccogliere, unire, collegare. Eppure psiche, lo ribadiamo, significa letteralmente proprio questo: anima. Ancora oggi, comunque, nel linguaggio laico di uso quotidiano, si parla talvolta di anima per indicare l'essenza di qualcosa; ed è in tal senso che possiamo intendere tale termine. E' da qui tuttavia che le strade iniziano a divergere, e che subentra quella che ai profani può apparire come la confusione, la babele dei linguaggi delle svariate forme odierne di psicoterapia: poiché ciascuna di esse riflette un'accezione particolare, una certa maniera di intendere l'anima - o l'essenza - della questione o del problema che è oggetto dell'attenzione del terapeuta nei confronti del suo paziente. Ogni specifico tipo di approccio psicoterapeutico colloca infatti tale "essenza" in un contesto definito, che diventa così l'oggetto privilegiato della sua indagine e del suo campo d'azione: come ad es. quello delle relazioni inter-personali e intra-familiari per l'approccio sistemico-familiare, oppure quello dell'interiorità e delle relazioni intra-psichiche (sino al cosiddetto in-conscio), per chi sia fautore di un approccio di tipo psicoanalitico o più genericamente psicodinamico; oppure quello del comportamento esteriore e visibile, per chi si attenga ad un modello cosiddetto comportamentistico. Per la scelta della terapia giusta non è pertanto in questione solo il tipo di problematica che affligge la persona, ma anche - soprattutto - un fattore di affinità psicologica, rispetto ad un certo modello di cura e di intervento.

 

 

Quella della rete è un’immagine inesauribile.  Rete televisiva, rete satellitare, rete di internet; la rete del pescatore, la tela del ragno; la rete in fondo alla porta nel gioco del calcio o della pallanuoto; la rete di recinzione di un istituto di pena, di un appezzamento di terreno, di un’impalcatura edile … Si potrebbe continuare con un’infinità di esempi simili. Ma cosa esprime essenzialmente l’immagine della rete? Anzitutto, un certo grado di permeabilità e discontinuità. Se la rete avesse una struttura continua, rigida e compatta, non sarebbe più tale. E’ la permeabilità che consente la trasparenza che permette di vedere-attraverso (vedere-in-trasparenza, “see trough”, come lo definisce J. Hillman) di essa, al di là di essa, e dentro. La rete è idonea a catturare - che si tratti di insetti, di pesci o di onde radio. In tal caso gioca un ruolo decisivo lo spessore e l’ampiezza delle sue maglie, il potere risolutivo, per così dire, della rete. E’ esso che definisce e discrimina tra ciò che va  trattenuto e ciò che va lasciato passare. Insomma: la rete come sinonimo di filtro.  E’ la struttura intima della materia stessa che è retiforme. Si pensi all’atomo. Ce lo immaginiamo come una massa compatta e continua, nucleare, ma non è così. Tra le particelle che compongono gli atomi della materia c’è una distanza enorme, proporzionalmente alle loro dimensioni. Un atomo, al contrario di quanto pensava Democrito, è tutt’altro che indivisibile. E’ piuttosto simile ad un micro-sistema planetario. Siamo sempre “in rete”, allora, è proprio il caso di dire. La rete in quanto trappola cattura tutto ciò che non è sufficientemente sottile da poterla attraversare senza rimanervi impigliato. Un principio di reificazione espresso in immagine. Con sensibilità paranoidea, la potremmo definire una barriera che impedisce l’intrusione di agenti esterni temuti o nocivi, come il reticolo endoteliale, o il falso sé di cui parla D.W. Winnicott. La rete impone una scomposizione delle entità. In altri casi, offre una possibilità di identificazione spaziale, di localizzazione. Si pensi agli assi cartesiani, con la loro struttura reticolare.  Il mappamondo è una gigantesca palla imprigionata in una rete ideale – come le cipolle al supermercato – di meridiani e paralleli reciprocamente ortogonali. Infine … la rete è un’eccellente metafora della psiche. Psiche, la giovinetta irretita da Eros, col suo fascino virginale – una rete intatta, una partita di calcio ancora sullo zero a zero, “reti in bianco”. Ironia a parte … la rete è psiche stessa in quanto struttura intima, tessitura profonda, articolazione originaria. E’ l’inconoscibile che tuttavia rende possibile la conoscenza filtrando il reale per  adeguarlo alle capacità della mente, proteggendola dall’irruzione di verità troppo massicce, riducendolo in pezzettini di dimensioni tali da non mandare in frantumi quel contenitore che è il corpo stesso, invaso dalle emozioni. Una persona “difesa” appare “impenetrabile”, come l’atomo di Democrito. Lo può essere ad un “trattamento psicoterapeutico” – dunque in senso stretto o,  più estensivamente, alla “cura” che è all’opera nella vita, nella sua quotidianità. La stessa psicoterapia potremmo considerarla come una delle maglie dell’enorme rete di protezione che contiene, protegge o - in certi casi persino - intrappola la soggettività umana. Come un gioco che impone alla psiche di farsi via via sempre più sottile, onde   poter sfuggire alla sua presa, evitando così di restarne irretita. Una psiche iniziata - cioè assai curata - è un capolavoro di elusività. Stanze e stanze di terapia comportamentale, cognitiva, sistemica, psicoanalitica, esistenziale … potremmo immaginarle come altrettanti reticoli che setacciano l’anima dell’uomo da capo a fondo senza tuttavia trattenerne nulla di essenziale e a dispetto di ogni proposito di normalizzazione. Immagine paradigmatica del moderno psicoterapeuta è allora il discepolo Pietro, il “pescatore di uomini” della tradizione giudaico-cristiana, fondatore della Chiesa,  la Madre di tutte le moderne Istituzioni Terapeutiche. Dietro il potere della Chiesa, della Famiglia, delle Istituzioni Pubbliche, così come dei mass-media, delle ideologie e delle dottrine scientifiche, filosofiche e artistiche di ogni epoca e luogo occhieggia sempre lei: la rete. Ed è in tal senso che quella della rete è una metafora originaria dello psichico: di uno scudo che protegge l’uomo dalla verità, almeno fino al tempo della mietitura.

Un commento alla favola di Apuleio, “Amore e Psiche”

Ci sono vari modi di accostarsi al mondo dei miti e delle leggende dell'antichità. Una favola si presta a differenti tipi di lettura, ciascuno dei quali si caratterizza per la scelta di una chiave, un criterio esplicativo che privilegiando la scelta di alcuni elementi della narrazione anziché altri, oppure una prospettiva particolare da cui osservare gli stessi, può condurre ad un’interpretazione specifica del suo contenuto. Le storie classiche, inoltre, quelle che ci sono state tramandate dalla tradizione greca e greco-romana, se da un canto ci forniscono conoscenze riguardanti gli usi e i costumi, i rituali religiosi, la stessa mentalità di quelle antiche genti, dall'altra offrono l'opportunità di riflettere sul rapporto tra quel mondo e quel tempo ed il nostro mondo, coi suoi modelli e le sue caratteristiche specifiche di pensiero e d'azione. La leggenda di "Amore e psiche" non fa eccezione, in tal senso. Su un piano immediato, ingenuamente letterale, essa ci narra delle vicende di un amore che nasce tra due creature caratterizzate dall'appartenenza a mondi differenti, - quello umano di Psiche, quello divino di Amore/Eros. Già l'alterità di due mondi così differenti dovrebbe metterci in guardia da facili riduzionismi. Il femminile in questa fiaba è umano, ma non la sua controparte maschile. D'altro canto tra questi due mondi sussiste un'indubbia relazione. Essa è condizione necessaria affinché possa esservi, quanto meno a livello immaginario, una simile storia. Gli dei sono raffigurati come creature dotate di un potere superiore, che è quanto basta per caratterizzarle per quel che rappresentano, al di là delle epoche in cui vennero concepiti. Ma anche come esseri carichi di passioni squisitamente umane. L'invidia di Venere, la concupiscenza di Eros... solo per esemplificare un po’. L'incontro tra i due mondi, quello umano e quello divino, è dunque reso possibile dalla condivisione di sentimenti, modelli d'azione e di pensiero omogenei, al di là della differenza fondamentale, sancita a priori, che sussiste tra i protagonisti. L'ideale della bellezza è uno dei fili conduttori della storia. Venere, in quanto modello divino di essa. Psiche, in quanto incarnazione umana della medesima. Amore, - in greco Eros - svolge, tra l'altro, una funzione di relazione tra le due figure femminili. E' colui che permette di stabilire una connessione tra i due mondi. Anche Eros è una divinità, comunque. Se da una parte, dunque, abbiamo una creatura semplicemente umana, qual' è Psiche, dall'altra abbiamo a che fare con una coppia divina: Madre e Figlio. Il divino è duplice, dunque diviso al suo interno. La storia è resa possibile proprio dalla tensione che sussiste a priori in seno al divino stesso. Se Eros si limitasse ad obbedire ai comandi materni, se cioè non vi fosse un conflitto all'interno del mondo divino, la storia esiterebbe nella maledizione sancita da Venere ai danni di Psiche. Solo una divinità, evidentemente, può fronteggiare e tenere testa ad un'altra. Eros, infatti, non agisce come un semplice esecutore del mandato materno. Eros mediatore, dunque, coerentemente con la funzione connettiva dell'amore. Oscuro in principio, agli occhi di Psiche, e operatore di una progressiva trasformazione della fanciulla che ode voci che se da un canto la seducono, invitandola ad una quiescenza cieca - quasi ipnotica - ad una condizione di prigionia dorata, dall'altra l'ammaestrano - traendola fuori dal suo mondo, dalla sua ingenuità fiduciosa e virginale - inducendola a diffidare delle sorelle – duplici anche quelle - e insinuandole una divisione che sembra riecheggiare la condizione stessa dell'amante divino. Un amore portatore di dubbio, del sospetto, dell'ambiguità di una conoscenza ormai non più immediata, preriflessiva. Sovvengono qui analogie col racconto di Ade e Persefone, la fanciulla divina figlia di Demetra, rapita dal Signore dei Morti e del mondo infero del mito greco. Anche il soggiorno di Psiche nel palazzo di Eros rafforza l'analogia tra le due situazioni, in un mondo che sembra sospeso tra la realtà e l'immaginazione, incantato e suggestivo, non dissimile da quel regno di ombre che è l'Ade omerico. L'ultima prova che Venere impone all'eroina, inoltre, mette a confronto diretto le due figure del mito - la kore (colei che è essenzialmente figlia) e la protagonista della favola di Apuleio - rafforzando l'idea di una connessione sotterranea esistente tra di esse. Un ruolo fondamentale nella storia di Amore e Psiche, come in altre innumerevoli storie narrate dal mito e dalla tragedia - penso qui al teatro di Shakespeare, in particolare - è svolto dall'invidia. Non solo l'invidia della dea madre, a cui già s'è accennato sopra, ma anche quella delle sorelle maggiori di Psiche, che di Venere sembrano essere, sino al momento della loro scomparsa dalla narrazione, delle emissarie terrene, quasi sussistesse tra esse e la dea un'oscura, tacita alleanza, persino un'identificazione inconscia (partecipation mistique, con le parole dell'antropologo Levy Bruhle) stipulata ai danni della bellissima e disgraziata fanciulla. Del resto in tutta la narrazione si può cogliere un elemento di specularità tra ciò che accade in terra - tra Psiche e coloro che la circondano - e le vicende celesti - tra Amore e le altre divinità che compaiono sulla scena - congrua con l'interpretazione tradizionale, maturata in seno alle correnti religiose del misticismo e dell'ermetismo alchemico dell'antichità, secondo la quale il mondo umano sarebbe, essenzialmente, una copia, una sorta di duplicato, di quello divino (è quel che alcuni esegeti hanno creduto di intendere nell'oscura espressione, attribuita ad Ermete Trismegisto, che afferma "come sopra così sotto"). Invidia dunque come elemento propulsivo, quasi un primo motore degli sviluppi che si susseguono nella vicenda narrata, e che pare inoltre assumere, se si osserva la storia nel suo complesso, una valenza etica fondamentale. "Non è giusto", nell'ottica di una Venere, che ad un essere umano sia tributato un culto della portata di quello che spetterebbe solo ad una divinità - la sua divinità. "Non è giusto", dal punto di vista delle sorelle di Psiche, che la sorte di un essere umano nato dallo stesso grembo che diede loro i natali possa essere così fortunata, tanto migliore della loro - come sembra esserlo ai loro occhi quando Psiche le accoglie nel palazzo incantato di Amore. Un'invidia che funge da innesco di situazioni che "mettono alla prova", che vagliano e scandagliano in profondità, secondo le linee di un cammino di tipo iniziatico che sembra volto alla purificazione (sublimazione, nel linguaggio alchemico) dell'anima (in greco Psyché) del neofita, o dell'adepto. Un'anima sempre in procinto di soccombere, in situazioni spesso assai più grandi - almeno stando alle apparenze - delle sue possibilità e dei suoi mezzi. E del resto è proprio nell'ambito di una vicenda misterica e iniziatica, quale quella descritta da Apuleio nel più vasto contesto da cui è tratta la favola di Eros e Psiche, ch'essa si colloca dai punti di vista storico, letterario e psicologico. Essenziale, come spesso nelle fiabe, risulta essere qui il soccorso di creature benigne del mondo animale (le formiche) e vegetale (la canna) che fungono da istanze ausiliarie (spiriti soccorritori) per lo svolgimento di compiti di cui la nostra Psiche, con le sue sole forze, non potrebbe giungere a capo. Una Psiche, come già accennato, spesso sull'orlo del precipizio, - oggi diremmo "borderline" - attratta dalla soluzione apparentemente più diretta ed immediata - il suicidio - a fronte delle difficoltà che incontra sul suo cammino. Con la fatale presa di coscienza susseguente all'episodio della scoperta delle vere fattezze di Amore cessa brutalmente, per Psiche, il tempo dell'ingenuità e dell'incanto, di un'esistenza gradevole sebbene oscura, in comunione con lo sposo invisibile, sconosciuto, che provvedeva a tutti i suoi bisogni in modo magico, e senza ch'ella dovesse compiere alcuno sforzo. Un'esistenza che potremmo definire, retrospettivamente, simbiotica con l'oggetto d'amore, che induce a supporre che l'iniziale permanenza di Psiche nella reggia di Eros rappresenti una sorta di reinfetamento, di restaurazione di un'epoca antecedente alla nascita personale. Per una vita cosciente, ovvero fuori dall'indifferenziazione primaria dall'oggetto d'amore, è fondamentale essere in grado di compiere operazioni di discernimento - come, in forma concreta, il distinguere tra loro sementi differenti - tutte comunque basilari per la vita stessa dell'uomo, soprattutto nelle società agricole delle culture tradizionali dell'antichità. Una sapiente accortezza è parimenti fondamentale per evitare alla nostra eroina di affrontare il secondo compito in maniera maldestra, troppo diretta, nei confronti di una natura animale pacificamente collettiva - quale quella ovina - ma nondimeno in grado di infiammarsi se avvicinata nel modo e nel momento sbagliati (L'ora del dio Pan - l’ora panica - nell'antichità era considerata il mezzodì, quella in cui non si proietta alcuna ombra, essendo il sole allo zenit). Saranno allora le pecore stesse, le insegna l'anima vegetale (la canna) - a fornirle ciò di cui è in cerca (la lanugine dorata). Entrare dunque adeguatamente in relazione con lo spirito gregario consente di trarre ciò che esso apporta di prezioso per lo sviluppo dell'individualità. E poi, i compiti letteralmente impossibili. Le acque del fiume Cocito ricorrono frequentemente nei racconti della mitologia greco-romana. Sono acque sulle quali gli dei sono soliti giurare, note per la loro ardua attingibilità e per i pericoli che incombono su coloro - semplicemente umani - che mirino ad impadronirsi anche di solo poche gocce di esse. Acque dunque spirituali, a somiglianza di quelle delle sorgenti che incontriamo talvolta nelle storie dell'Antico Testamento, e forse non è un caso che sia l'Aquila, animale emblematico della somma divinità dell'Olimpo, Zeus, la creatura più idonea ad attingere da esse. (Per inciso, l'aquila è anche l'emblema del Vangelo di Giovanni, il vangelo spirituale della tradizione canonica neo-testamentaria). Profondità di visione, ampiezza di estensione nel volo, capacità predatorie fuori dal comune fanno dell'aquila un animale che anche nelle mitologie sciamaniche delle civiltà extra-europee svolge un ruolo di primo piano. Uccello psicopompo (guida di anime) per eccellenza, conduce attraverso spazi sconfinati, al di là del noto, in quelle regioni dello spirito dove l'anima dell'uomo, abbandonando più o meno spontaneamente la sua sede abituale, può finire per smarrirsi, senza un'adeguata guida (in genere lo sciamano stesso) che ne garantisca il ritorno (il reinsediamento nel corpo). La prova finale va ancor più in questa direzione interiore o ... inferiore, se vogliamo. Proserpina/Persefone, in quanto regina del mondo infero greco-romano, con tutto il sostrato mitico ad esso correlato, indica un elemento di profondità. L'unguento destinato a Venere non è dunque un semplice rimedio estetico. Sembra piuttosto un cosmetico, termine che ben lungi dall'esaurire il proprio significato - come accade nell'uso corrente e profano della parola - nell'ambito della cura esteriore della persona, ci ricorda con la sua etimologia che il cosmo segue un ordine e ha fondamenta etiche, che il culto della divinità e la cura dei Templi hanno il compito di garantire e perpetuare, affinché la bellezza non vada perduta, su questo mondo. Il convito divino, con cui si conclude la favola, sancisce la coniunctio oppositorum - l'unione degli opposti - nella forma archetipica, cioè universale ed eterna (in quanto valida per ogni epoca e ogni luogo) del matrimonio celeste. Un'unione generatrice di piacere (voluttà) e vita.