Vai al contenuto

Qualunque discorso non è mai l’inizio. Non è mai irrelato, indipendente dalle premesse tacite che lo sottendono. La piena consapevolezza di questo spinge all’autoreferenzialità, a rivolgere l’attenzione più che su un possibile obbiettivo o scopo dell’argomentare, alla  sua sorgente. Questa propensione “archeologica” dell’indagine - questo movimento a ritroso che prende vita con tale rivolgimento -  è andare in profondità : preferire lo scavo, all’operare in estensione o in ampiezza nel tentativo di annettere nuovi territori, di colonizzare in superficie. Un simile metodo non porta a un incremento di conoscenze, di cognizioni ordinabili e catalogabili ad uso e consumo di chicchessia. Genera semmai stupore, meraviglia e un certo timore, quando l’oggetto della ricerca – come poi inesorabilmente accade restando fedeli a tali premesse – tende ad impallidire, a sfumare, come una figura spettrale e fantasmatica, mano a mano che l’indagine si approfondisce. Questa è la quintessenza della cosiddetta “ricerca interiore”.

Ma cos’è la ricerca interiore?

E’ un’indagine che si nutre della sospensione dell’interesse per il mondo, coi suoi allettamenti e le sue brame. Una sospensione che accade quasi sempre in seguito a un impedimento o una patita frustrazione dei bisogni che si confidava di soddisfare rivolgendosi all’ esterno. Chi è destinato a conoscersi, pertanto, se non colui che ha trovato bloccata la strada che lo allontanava da se stesso?

Ma la ricerca interiore è anche assai più di quel che altrimenti sarebbe solo un passatempo narcisistico, un’osservazione - a volte compiaciuta a volte orrifica - del vuoto di forma che è alla radice dell’essere. E’ un movimento autonomo che può a lungo spacciarsi per quel che non è – ovvero : per libera scelta. Non c’è nulla di libero. Men che mai la reazione al riconoscimento di questo stato di cose. Ma non c’è neppure alcuna schiavitù, alcun vincolo. Libertà e Necessità sono due facce della stessa medaglia e non sono termini idonei, atti a descrivere adeguatamente ciò che è. Così, anche la “depressione” o la “mania” che possono sembrare scaturirne sono il frutto di un equivoco, di un errore di interpretazione. Il ritmo del flusso di produzione del pensiero non è mai regolare, poiché non c’è alcuna regola che lo governi. Non c’è scienza. Eppure almeno un simulacro di essa deve pur essercene, altrimenti - qui - di cos’è che stiamo parlando?

La scienza: bando all’etimologia. Con questa parola si possono fare bei giochini. Anzitutto, le si può anteporre il prefisso co- e ottenerne : coscienza. La Coscienza sembra qualcosa in più della scienza. Riporta l’attenzione sul fatto che c’è sempre un quid inafferrabile dietro la scienza. Dacché la scienza è inevitabilmente parte di una rappresentazione più comprensiva, di un teatro più vasto, di quello che si vede. Mentre la coscienza è quanto di più intimo possa esservi. Quanto di più nascosto e profondo. Che sia pertanto essa, l’oggetto della “ricerca interiore”? una ricerca indifferente ai nessi logici, dal momento in cui sia beninteso che la logica è pseudo-coscienza.

Si prenda una qualsiasi catena causale di eventi. La parola stessa (“catena”) indica prigionia, necessità, assenza di scelta: “determinismo psichico” lo chiamava S. Freud, applicandolo al dominio del discorso psico-logico, dove non fa una piega. Ma cos’è che effettivamente produce? quale nuova conoscenza? non è forse un’infinita catena di rimandi, di significanti che non conducono  mai a una completa lisi –a una risoluzione, a un punto culminante di chiarificazione definitiva?                                                         

L’efficacia della menzogna, nelle sue forme di espressione più raffinate, consiste proprio in questo. Nel creare un’illusione di conoscenza così convincente da far dimenticare che tutto è nulla. Con l’apparente nascita di qualcosa si entra nel campo del possibile, dell’intrattenimento infinito coi balocchi intercambiabili dell’esperienza verbale. Si potrà obbiettare che c’è la morte, a porre inesorabilmente fine a tutto questo: senonché la morte di tutti i non-fenomeni è il più oscuro e inesplicabile, certamente il meno “logico” tra tutti quelli che (non) si possono immaginare.  Per questo si può forse dire che la morte è la metafora dellinteriorità per eccellenza, nella sua espressione più pura e inviolabile. Se c’è tanto affaccendarsi attorno ad essa è perché,  benché non se ne sappia nulla, non si può fare a meno di non ignorarla.

L’ignoranza nei confronti della morte non ha limiti, a parte quelli sanciti dall’angoscia panica, più che dalla paura. Rituale religioso, cerimoniale funebre, culto dei morti … penetra tutto nel tessuto della vita, dissimulandosi in forme di sollecitudine, di amore per la legge, di passione necrofila per la salute del corpo e dell’anima. Non si fa altro. L’esorcismo perpetuo della morte è l’intrattenimento  prediletto dell’uomo, dalla notte dei tempi in qua. Il solo, a ben vedere. Sesso, droga, musica, scienza, cultura, amicizia, compassione, speranza, incoraggiamento, cura di sé e dell’altro da sé, interesse per il futuro, poesia, finanza, economia, giurisprudenza, passione amorosa, perversioni e travestitismo … perché continuare con una sterile elencazione delle potenzialmente infinite forme di inattività dello spirito?

Nel corso di una seria ricerca interiore è inevitabile che le virtù si sgretolino una dietro l’altra. Il cristianesimo è il tentativo forse più portentoso prodotto dall’ingegno umano di salvare il castello di sabbia della virtù dai marosi dell’innocenza. Per questo è difficile che un’onesta ricerca interiore ne possa ignorare l’immane potenziale di disperazione. Metterci sopra una croce è anche quel che asserisce il linguaggio comune: porre fine a ogni speranza - almeno per questa vita. La speranza - che era avversa dai greci antichi, uomini ancora fortemente ancorati all’istinto di vita e di morte - é roba da creature del sottosuolo, da mondo infero in cerca di redenzione. Una genuina ricerca interiore rivela tutto questo senza che occorra aprire alcun libro di umana fattura. Ma cosa può sorreggere il cercatore dinanzi a tanto sconcerto? nulla. Tant’è che egli non si ritrova, ma piuttosto si perde. Si perde nei meandri dello spirito generatore di forme. Dai oggi, dai domani … poco alla volta tutto si fa evanescente e impalpabile, finché  giunge - inatteso, insperato - il tempo dei miracoli.

Il tempo dei miracoli è un non-tempo, al pari dello spazio che è un non-spazio. Inutile, pertanto, cercarne le coordinate cartesiane. Sono cose che si possono sapere ma che non possono esser dette - come quelle degli antichi “misteri”. Sminuire il poeta e il sognatore è l’arte di dar corpo alla durezza della materia, alla crudezza del suo impatto. La malattia, qualunque tipo di malattia, di ciò ne è un’illustrazione esemplare. Non è facile privare un malato del suo sogno crudele, quando non resta altro rifugio per la sua immaginazione. La potenza dell’anima si misura anche coll’attaccamento alla sofferenza, all’agonia d’una morte che tarda ad arte il suo sopraggiungere, come un’amante ritrosa all’appuntamento coll’amato. Sovvertimento di tutti i valori è allora il non accadimento tramite cui è visto in trasparenza il nocciolo dell’equivoco - coltivato appassionatamente - chiamato la mia vita.

Se la ricerca interiore conduce nella terra di nessuno cosa c’è - in essa - di tanto allettante da renderla irresistibile? forse la noia, più che lo spirito di avventura. La noia stuporosa ed estenuata di duellare con un fantasma che schiva abilmente ogni fendente.

Così, la vita al di là della vita attira con sottigliezza irresistibile. Per questo occorre non dare troppo credito al referto medico-diagnostico che descrive, alla luce del giorno, “la causa di un decesso”. Quello che è cibo per l’immaginazione dei corpi è veleno per l’anima - il corpo dell’immaginazione. La notte racconta tutta un’altra storia. Una storia di rapimenti che non lasciano tracce tangibili tramite cui indagare.

riflessioni sul momento attuale dal punto di vista non duale

 Una riflessione non duale sul momento critico che stiamo vivendo

Viviamo tempi difficili. O meglio, tempi in cui la situazione mondiale è tale da rendere oltre modo evidenti le aporie della vita, le “insostenibili” contraddizioni dell’essere. Il “coronavirus”, se osservato da una certa angolatura, sembra l’asso nella manica calato giù sul tavolo da gioco della vita umana da una divinità che vuole mettere alle corde tutti coloro – in fondo tutti – che tollerano a stento dubbi e incertezze sul “da farsi” per fronteggiare una situazione - considerata unanimemente emergenziale - come quella della “pandemia”. Nell’immaginario collettivo della maggioranza delle persone il vaccino è diventato l’unico antidoto efficace per fronteggiare il “male”, ma residua una irriducibile minoranza che esita a crederlo, dunque ad arrendersi a questa narrazione. E allora ecco lo scatenarsi del conflitto: “no vax” contro “pro vax”. Questa è, naturalmente, una grossolana semplificazione; utile però per iniziare a riflettere, per cercare - a partire da essa - di andare più a fondo della questione, nel tentativo di comprendere quanto sta accadendo.

Anzitutto potremmo chiederci: siamo tutti d’accordo sul fatto che è in ballo il bene di tutti, e non solo quello di qualcuno?

La risposta a questa domanda sembra scontata : sì, certo, e chi potrebbe dubitarne? a chi non è cara la vita, o quanto meno l’idea di fare il possibile per sfuggire a una terribile sofferenza, come quella causata da una malattia infettiva che – anche se in una minoranza di casi – è in grado di provocare dolori strazianti, fino ad esitare in un soffocamento mortale della sua vittima?

Non credo che su questo possano sussistere dubbi.  Siamo tutti d’accordo. Il disaccordo nasce dopo, evidentemente, e riguarda il modo di fronteggiare il Nemico Comune dell’Umanità: uso le iniziali maiuscole per sottolineare questo senso di unità dell’Uomo di fronte al “male” in questione. Se poi quest’Uomo fosse davvero Uno e soltanto Uno, anziché una moltitudine di teste pensanti, non sussisterebbe alcun conflitto, almeno non esteriormente: avremmo infatti a che fare con un solo Uomo - tutt’al più lacerato, intimamente diviso - che tenta inutilmente, proprio perché in sé diviso, di approdare ad una conclusione decisiva, circa la soluzione del suo problema.

Ma in effetti non è proprio questa la condizione di ciascuno di noi?                                               

 Non c’è in fondo, in ciascuno di noi, un “no vax” che si contrappone ad un “pro vax”, portando avanti un conflitto apparentemente insolubile, nella misura in cui ciascuna   parte sembra in grado di argomentare qualcosa di plausibile, di ragionevolmente sostenibile?  

Solo se si perde il contatto con questo stato di intima divisione che è ora in ciascuno di noi,  compare un avversario esterno: che sia “no vax” o “pro vax” dipende semplicemente da quale parte è stata rimossa, dimenticata, repressa e/o soppressa dentro di sé, per raggiungere un senso di intima integrità e coesione. In altre parole, solo se si rinuncia al dubbio che quantomeno una certa quota di “ragione” possa stare da ambo le parti.

Tuttavia, occorre riconoscerlo, in una situazione di emergenza il “dubbio” è percepito, ancor più che in condizioni di normalità, come qualcosa di scomodo se non persino di insopportabile.  Il dubbio infatti impedisce di agire, mentre invece “… qualcosa dobbiamo pur fare; non possiamo starcene fermi, in attesa che l’epidemia si decanti da sola : ciò potrebbe significare ancora migliaia, centinaia di migliaia, persino milioni, se non addirittura miliardi di vittime” - dice la voce della “ragione”.

Così, siamo in una situazione che non consente di restare troppo a lungo in una posizione di incertezza. Questo spiega anche come mai l’azione del Governo vada facendosi vieppiù stringente, persino autoritaria e intollerante:                               

                            o sei dentro o sei fuori, o vita o morte, o vaccino o confino

Per la mente razionale non c’è una “terza via”.                                                                                  

 Ma noi – ora potremmo chiederci - siamo davvero solo e soltanto una mente razionale? non siamo piuttosto una moltitudine di menti, ciascuna delle quali nel “prendere una posizione” si scinde in più posizioni - come detto più sopra - allo scopo di preservare un intimo senso di integrità, di coesione?

Con questo intendo dire che il conflitto interpersonale nasce proprio quando non siamo una mente razionale. Il “caos” che vogliamo evitare di albergare dentro di noi finisce inesorabilmente col presentarsi fuori di noi: nel disordine sociale, politico, interumano. Un disordine che - quando si tenta o tenterà di reprimerlo – forse inevitabilmente genera e genererà tanta violenza.

C’è una via di uscita da tutto questo?

Se c’è, essa consiste nel vedere con chiarezza tutto questo. Qualunque reazione differente  alla situazione presente non fa che alimentare ulteriormente il caos, proprio in quanto re-azione. Occorrono pertanto pazienza e calma, anzitutto. Poiché, come ben sapevano e predicavano i vecchi alchimisti

                                                    “tutta la fretta viene dal diavolo

Ovvero proprio da quel dubbio scottante di cui ognuno di noi vorrebbe liberarsi al più presto, per ritrovare la pace apparentemente perduta dall’inizio della “pandemia”. Già, proprio così: solo apparentemente. Poiché  il “paradiso” è sempre o alle nostre spalle – immagine di una trascorsa età dell’oro – oppure dinanzi a noi - immagine di una futura terra promessa. Non è mai stato presente, sussistendo l’illusione dell’esistenza di un io separato dal tutto.