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L'idea di creatività evoca il senso del nuovo, del diverso, dell'epifania di qualcosa che  rompe con ciò che è noto, col passato. In realtà, - come un'innumerevole varietà di studi psicologici condotti sul tema della creatività, soprattutto in quella sua declinazione specifica che viene definita in ambito cognitivo come insight, hanno mostrato - creare è piuttosto dare una nuova forma ad elementi preesistenti che vivevano in maniera irrelata, sparsa - per così dire - poiché il processo creativo è piuttosto un processo di unificazione, di sintesi. Un processo tanto “erotico” quanto “ermetico”, dunque, se si considera che Eros ed Ermes erano le divinità, nel mito greco, preposte a stabilire connessioni. Se così stanno le cose, è necessario rivedere quell'immagine che suggerisce, talvolta persino spinge, ad una certa violenza, in nome dell'essere creativi. In altre parole la creatività forse non è affatto in antitesi col bisogno di continuità, che pure condiziona il nostro vivere quotidiano, testimoniando di sé attraverso la ripetizione, l'abitudine, la conservazione e la protezione di quanto sinora è stato. Del passato. Si può allora immaginare che proteggere, custodire, restaurare ... siano azioni che piuttosto contribuiscono al processo creativo, alla configurazione di un avvenire - un'intuizione che spazza via d'un solo colpo tutte le più o meno grossolane antitesi che il pensiero opera tra l'idea di progresso e quella di regresso, così come tra passato e futuro, tra eroi conservatori della cultura ed eroi innovatori ... Anche l'idea che il processo creativo implichi necessariamente qualcosa di trasgressivo ne sortisce depotenziata, almeno nella sua connotazione forte, evocativa di chissà quali prodezze, di superamento di ostacoli e di tabù. Il tabù di fondo risulta essere piuttosto, se osservato da una certa angolatura, il pieno riconoscimento di una disarticolazione, di un nesso mancante. Di un vuoto di relazione. Il processo creativo può essere allora descritto come un'azione dell'amore che colma, che sana e riempie quel vuoto, configurando nuove connessioni. Qui si unificherebbero una molteplicità di strade. Non senza ripercussioni anche - soprattutto - sul linguaggio. Non perché debbano necessariamente fare la comparsa parole nuove, nuove forme di espressione  o nuove concezioni: talvolta è sufficiente che cambino il tono, la risonanza, la pienezza, di quelle vecchie. Accade allora che le vie dell'affettività e dell'intelletto (ancora, qui, parliamo di amore e psiche) tornino ad intersecarsi. Ci vorrebbero studi che approfondissero la conoscenza del rapporto che sussiste tra tono, espressione, risonanza - caratteristiche che definiscono l'aspetto emozionale, non verbale, della comunicazione tramite parole - ed il loro significato letterale - secco, per così dire – supposto che un tale significato possa realmente sussistere. Forse si scoprirebbe che non c'è soluzione di continuità tra questi due aspetti, collimando con l'esperienza che ciascuno di noi ha ripetutamente fatto di quanto, all'interno di un dialogo tra due interlocutori, il significato delle parole talvolta conti assai poco, risultando viceversa decisivo l'elemento relazionale, espressivo-emozionale. Meglio un vocabolario povero di parole ma ricco di anima*, si potrebbe essere tentati di commentare in forma aforistica. Poiché non è tanto il vocabolo a configurare un significato quanto quell’ineffabile fattore al contempo emozionale e relazionale per il quale non trovo una parola migliore di questa. Dunque non la mia o la tua anima. E neppure la nostra. Poiché l'anima non è un possesso, sebbene talvolta se ne parli come se lo fosse.

* Si rimanda al breve scritto, contenuto in questa stessa sezione, intitolato Che cos’è la psicoterapia?

Si sente frequentemente parlare di forme specifiche di psicoterapia: da quella psicoanalitica a quella cognitivo-comportamentale; dalla umanistica alla sistemico-relazionale - solo per citare alcune delle tipologie oggigiorno più diffuse. Più di rado invece ci si sofferma semplicemente sul significato della parola stessa: psicoterapia. E' quello che faremo qui, brevemente, ritenendolo un'utile riflessione preliminare alla scelta della giusta terapia psicologica. La parola psicoterapia risulta dall'unione di due termini distinti: quelli di psiche e di terapia. Quelle di Terapia psicologica, o della psiche, risultano pertanto essere definizioni concise e pertinenti del termine "psicoterapia". Ma che cosa significano, a loro volta, "terapia" e "psiche"?L'etimologia di "terapia" rimanda al greco therapéia, derivante a sua volta da "therapéuein", ovvero "curare". Originariamente il termine era utilizzato tuttavia non solo in ambito medico, ma anche per indicare il "servizio religioso" reso alla Divinità attraverso il rituale e il culto, così come quello reso alla natura attraverso la coltivazione del terreno. Anche la parola “psiche” ha radici mediterranee, stando ad indicare in greco l'anima (psychè), ovvero quel "soffio vitale" - rappresentato talvolta come un'animaletto alato, spesso una farfalla - che caratterizzerebbe l'esistenza di tutto ciò che si evolve nascendo, crescendo e morendo, al cospetto di quanto si limiterebbe ad esistere in una forma intrinsecamente immobile e statica, sempre uguale a sé stessa - dunque disanimata. Fare della "psicoterapia” significa pertanto, letteralmente, prendersi cura dell’anima. Inevitabilmente viene da pensare all'ambito religioso, quando si parla di "cura dell'anima". Oggigiorno, tuttavia, quello di psicoterapia è diventato un termine che evoca un sapere specifico e circoscritto di tipo medico-scientifico, in un senso che tende pertanto ad occultare la radice di quanto esso era imputato originariamente a designare. Difficile immaginare un'antitesi più grande di quella esistente tra un ambito come questo e quello di tipo religioso, considerando anche l'etimologia stessa della parola religione: raccogliere, unire, collegare. Eppure psiche, lo ribadiamo, significa letteralmente proprio questo: anima. Ancora oggi, comunque, nel linguaggio laico di uso quotidiano, si parla talvolta di anima per indicare l'essenza di qualcosa; ed è in tal senso che possiamo intendere tale termine. E' da qui tuttavia che le strade iniziano a divergere, e che subentra quella che ai profani può apparire come la confusione, la babele dei linguaggi delle svariate forme odierne di psicoterapia: poiché ciascuna di esse riflette un'accezione particolare, una certa maniera di intendere l'anima - o l'essenza - della questione o del problema che è oggetto dell'attenzione del terapeuta nei confronti del suo paziente. Ogni specifico tipo di approccio psicoterapeutico colloca infatti tale "essenza" in un contesto definito, che diventa così l'oggetto privilegiato della sua indagine e del suo campo d'azione: come ad es. quello delle relazioni inter-personali e intra-familiari per l'approccio sistemico-familiare, oppure quello dell'interiorità e delle relazioni intra-psichiche (sino al cosiddetto in-conscio), per chi sia fautore di un approccio di tipo psicoanalitico o più genericamente psicodinamico; oppure quello del comportamento esteriore e visibile, per chi si attenga ad un modello cosiddetto comportamentistico. Per la scelta della terapia giusta non è pertanto in questione solo il tipo di problematica che affligge la persona, ma anche - soprattutto - un fattore di affinità psicologica, rispetto ad un certo modello di cura e di intervento.

 

 

Quella della rete è un’immagine inesauribile.  Rete televisiva, rete satellitare, rete di internet; la rete del pescatore, la tela del ragno; la rete in fondo alla porta nel gioco del calcio o della pallanuoto; la rete di recinzione di un istituto di pena, di un appezzamento di terreno, di un’impalcatura edile … Si potrebbe continuare con un’infinità di esempi simili. Ma cosa esprime essenzialmente l’immagine della rete? Anzitutto, un certo grado di permeabilità e discontinuità. Se la rete avesse una struttura continua, rigida e compatta, non sarebbe più tale. E’ la permeabilità che consente la trasparenza che permette di vedere-attraverso (vedere-in-trasparenza, “see trough”, come lo definisce J. Hillman) di essa, al di là di essa, e dentro. La rete è idonea a catturare - che si tratti di insetti, di pesci o di onde radio. In tal caso gioca un ruolo decisivo lo spessore e l’ampiezza delle sue maglie, il potere risolutivo, per così dire, della rete. E’ esso che definisce e discrimina tra ciò che va  trattenuto e ciò che va lasciato passare. Insomma: la rete come sinonimo di filtro.  E’ la struttura intima della materia stessa che è retiforme. Si pensi all’atomo. Ce lo immaginiamo come una massa compatta e continua, nucleare, ma non è così. Tra le particelle che compongono gli atomi della materia c’è una distanza enorme, proporzionalmente alle loro dimensioni. Un atomo, al contrario di quanto pensava Democrito, è tutt’altro che indivisibile. E’ piuttosto simile ad un micro-sistema planetario. Siamo sempre “in rete”, allora, è proprio il caso di dire. La rete in quanto trappola cattura tutto ciò che non è sufficientemente sottile da poterla attraversare senza rimanervi impigliato. Un principio di reificazione espresso in immagine. Con sensibilità paranoidea, la potremmo definire una barriera che impedisce l’intrusione di agenti esterni temuti o nocivi, come il reticolo endoteliale, o il falso sé di cui parla D.W. Winnicott. La rete impone una scomposizione delle entità. In altri casi, offre una possibilità di identificazione spaziale, di localizzazione. Si pensi agli assi cartesiani, con la loro struttura reticolare.  Il mappamondo è una gigantesca palla imprigionata in una rete ideale – come le cipolle al supermercato – di meridiani e paralleli reciprocamente ortogonali. Infine … la rete è un’eccellente metafora della psiche. Psiche, la giovinetta irretita da Eros, col suo fascino virginale – una rete intatta, una partita di calcio ancora sullo zero a zero, “reti in bianco”. Ironia a parte … la rete è psiche stessa in quanto struttura intima, tessitura profonda, articolazione originaria. E’ l’inconoscibile che tuttavia rende possibile la conoscenza filtrando il reale per  adeguarlo alle capacità della mente, proteggendola dall’irruzione di verità troppo massicce, riducendolo in pezzettini di dimensioni tali da non mandare in frantumi quel contenitore che è il corpo stesso, invaso dalle emozioni. Una persona “difesa” appare “impenetrabile”, come l’atomo di Democrito. Lo può essere ad un “trattamento psicoterapeutico” – dunque in senso stretto o,  più estensivamente, alla “cura” che è all’opera nella vita, nella sua quotidianità. La stessa psicoterapia potremmo considerarla come una delle maglie dell’enorme rete di protezione che contiene, protegge o - in certi casi persino - intrappola la soggettività umana. Come un gioco che impone alla psiche di farsi via via sempre più sottile, onde   poter sfuggire alla sua presa, evitando così di restarne irretita. Una psiche iniziata - cioè assai curata - è un capolavoro di elusività. Stanze e stanze di terapia comportamentale, cognitiva, sistemica, psicoanalitica, esistenziale … potremmo immaginarle come altrettanti reticoli che setacciano l’anima dell’uomo da capo a fondo senza tuttavia trattenerne nulla di essenziale e a dispetto di ogni proposito di normalizzazione. Immagine paradigmatica del moderno psicoterapeuta è allora il discepolo Pietro, il “pescatore di uomini” della tradizione giudaico-cristiana, fondatore della Chiesa,  la Madre di tutte le moderne Istituzioni Terapeutiche. Dietro il potere della Chiesa, della Famiglia, delle Istituzioni Pubbliche, così come dei mass-media, delle ideologie e delle dottrine scientifiche, filosofiche e artistiche di ogni epoca e luogo occhieggia sempre lei: la rete. Ed è in tal senso che quella della rete è una metafora originaria dello psichico: di uno scudo che protegge l’uomo dalla verità, almeno fino al tempo della mietitura.