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Considerazioni su alcuni aspetti del messaggio non dualistico
Michela Guidotti, "Un pugno di mosche"

E’ difficile parlare di “non dualità” senza trasmettere l’impressione di non avere nulla da offrire, lasciando chi legge o ascolta con la sensazione di ritrovarsi - in un certo senso - con “un pugno di mosche”. Anzi, se ciò non accade, è perché forse si sta parlando impropriamente, di “non dualità”. Ma perché - è lecito chiedersi - la sensazione di rimanere con un pugno di mosche “deve” accadere? Se non accade, significa che si sta alimentando un'illusione di fissità, di una posizione definita, mentre "non dualità” indica proprio l’inconsistenza di qualunque posizione definita. Ciò frustra sistematicamente il desiderio di pervenire a una qualche certezza, se si eccettua la certezza dell’incertezza.

Di solito questo a nessuno piace. Dovrebbe conseguirne che sia meglio tacere, ovvero evitare di parlare di “non dualità”, se non si vuol rischiare di essere “disturbanti”. Tuttavia non sempre restare con un "pugno di mosche” è un’esperienza spiacevole.  Può essere, al contrario, un’esperienza liberatoria - seppure fugace ed evanescente, poiché non basta una piccola crepa tra le mura di una stanza buia, attraverso cui filtri qualche raggio di luce, a render le cose chiare e ben visibili al suo interno.

Il messaggio “non duale” toglie la sensazione della solidità del terreno su cui poggiano i piedi. Può pertanto generare un senso di vertigine*. Essendo "destrutturante" può sembrare “nichilistico” sebbene non lo sia, poiché non sostiene alcuna posizione antitetica nei confronti di posizioni "edificanti". Tuttavia è letteralmente “disperante”, in quanto mina alle fondamenta la speranza, l’illusione che “ci sarà un tempo a venire” migliore o più propizio di questo - di ciò che è.

Non vi è alcuna esortazione a “fare qualcosa”, ma non c’è neppure nel senso opposto, a “non fare nulla”, quando è riconosciuto che si tratta in ambedue i casi di accadimenti, senza effettiva scelta da parte di qualcuno. Questo aspetto è nevralgico per discernere l’autentica “non dualità” da svariati messaggi pseudo "non duali” in cui - a volte più espressamente, a volte meno - tende a prevalere un atteggiamento esortativo, persino direttivo**. Un enunciato corretto non sarà inquinato da simili tendenze manipolatorie in quanto nessuno lo enuncia, poiché non c’è alcun “guru”.

Infine, a dispetto di quel che può sembrare accadere sul piano della storia di qualcuno - ovvero nello spazio e nel tempo - nessuno "torna" una seconda volta dallo stesso “maestro” di “non dualità”.

Come disse il vecchio Eraclito***:   

                    “Non ci si può immergere due volte nello stesso fiume”   

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*Si rimanda alla videointervista in cui M. Bergonzi parla della sua esperienza in occasione dell’incontro con Nisargadatta Maharaj http://www.asia.it (https://youtu.be/C4_Ls8PdALY?t)

**Come, ad esempio, quando si raccomanda di “coltivare la presenza”

***Cit. Platone, “Cratilo”, 402 A

E’ importante individuare forme di espressione linguistica adeguate per enunciare il più correttamente possibile il messaggio non duale. Per dirlo con una metafora: è importante che un cartello di segnalazione sia ben scritto e ben collocato, per svolgere adeguatamente la sua funzione. Anche se, in effetti, non ci si può realmente “perdere” - nel senso che non può accadere nulla che non sia Questo. La vita funziona bene anche senza che nessuno cerchi di “spiegarla”.

Il riconoscimento dell’assenza di un centro - di una posizione permanente, stabile - ha delle conseguenze di portata incalcolabile. Non c’è più nulla, dopo, che attenda “autorizzazione” per manifestarsi. Naturalmente anche prima era così, sebbene non visto. Apparentemente non cambia nulla. La vita continua come sempre, coi suoi accadimenti quotidiani e la sua “routine” sia fuori - nel cosiddetto mondo esterno - che dentro – in sé stessi. Eppure, al contempo, tutto è radicalmente differente. Sempre meno sussiste quell’apprensione per cui ci si “anima” quando le cose non vanno come “dovrebbero”.  In un certo senso è la morte, a prendere il sopravvento. Si inizia a realizzare così che davvero la morte non è un accadimento. Che non succede mai, essendo sempre presente. E’ un cambiamento di prospettiva sottile ma radicale. Talmente radicale da risultare letteralmente “inestimabile”, e sottile al punto da non essere affatto “apprezzabile”.

L’andamento del divenire è riconosciuto nel suo essere spiraliforme, consistendo in un movimento apparente “intermedio” tra linearità e circolarità. Così a rigore non c’è un ritorno nel vero senso del termine, quanto piuttosto un apparente richiamo. Tutto ciò anche se non è immediatamente visto è colto in retrospettiva. Ma anche in prospettiva: poiché non dualità vuol dire, in termini temporali, cessazione sia di un “andare verso” che di un “venire da”. E’ la fine del tempo. Per la logica ordinaria ciò è inconcepibile. In altre parole il tempo sviluppa, srotola, svolge … l’infinito che sempre è, e non-è.

Il messaggio non duale è sovente accolto con irritazione e fastidio, se non proprio rabbia o ostilità, quando viene espressamente tematizzato e/o enunciato. E’ di quelle “cose” che non si vorrebbero mai sentir dire perché, oltre che suonare un po' "folli", sono ritenute svalutanti nei confronti della storia di cui l’io si sente di essere il protagonista. Oppure, al contrario, esso suscita un fascino misterioso, che induce a ricercare attivamente quelle situazioni (raduni, videofilmati, sat-sang ecc.) appositamente dedicate al “tema” della non dualità.  Tuttavia non c’è una differenza sostanziale tra questi due atteggiamenti opposti che sono, in effetti, “due facce della stessa medaglia”. Qualora il messaggio sia davvero “realizzato” non si tenderà a cercare una qualunque situazione definita, poiché “realizzarlo” implica proprio questo: la fine - per qualsiasi cosa, persona, situazione ecc. - di essere speciale.                                                             

Nella mia esperienza ho riscontrato che soprattutto nella quiete della notte, o nel dormiveglia, si avverte un’eco, una risonanza che fa “vibrar l’animo”– per così dire – all’unisono col messaggio non duale. Probabilmente ciò dipende dalle condizioni più favorevoli che sussistono in quei momenti ad un ascolto della …“voce della verità”. E’ con esitazione che scrivo questo, perché già immagino gli scuotimenti di capo che può suscitare, soprattutto nei lettori più esigenti e “assennati” di queste righe, un tale modo di esprimersi. Ho sufficiente dimestichezza colla “patologia mentale” per ascoltare io stesso con un certo “sospetto” qualcuno che iniziasse a parlare con troppa convinzione – fuor di metafora - di “voce della verità”.  Immediatamente si affacciano nella mente ipotesi “diagnostiche” di disturbo paranoideo  o schizofrenico, di delirio mistico, religioso ecc. Per “voce della verità” non intendo nessuna percezione sensoriale definita (uditiva,  visiva,  ecc.) quanto una sorta di rischiaramento che pur non lasciando alcuna traccia “tangibile” (pensieri, emozioni, stati d’animo ecc.) attua una trasformazione irreversibile nell’intimo. Una “voce” ineffabile, dunque, che - senza impartire nessun comando né indicare alcunché di definito – impercettibilmente “rischiara” l’orizzonte interiore. E’ questa sua discrezione a suggerirmi di alludervi come a una “voce della verità” - nessuna rivelazione, nessuna illuminazione, nessun improvvisa intuizione più o meno folgorante … tutti fenomeni psicologici che si caratterizzano per una certa "irruenza" che li contraddistingue ed i risvolti “psicopatologici” che, talvolta, essi implicano.

Si prenda, infine, l’immagine dell’Ultima Cena con “Gesù attorniato dai Discepoli”: l’istituzione dell’Eucaristia. Distribuendo pezzi del suo corpo (pane) tra i convitati al banchetto, l’Uno (l’Assoluto) che il Cristo è/rappresenta si frammenta, per nutrire tanti ego separati che si manifestano come persone (i discepoli) ciascuna col proprio carattere, la propria storia e il proprio irripetibile, singolare destino. Questa è la maniera “religiosa” - specificamente cristiana - di esprimere quello che intende T. Parsons quando afferma che                                                    

                                             “la totalità ama le storie”  

E’ bene sottolineare che la storia non va intesa come qualcosa di contrapposto a ciò che è, cioè a Questo (non-dualità/corpo di Cristo).

In verità non esistono affatto delle “storie” distinte dalla “totalità”, poiché è il “corpo di Cristo” che nutre - alimenta di sé - ciascuna “storia”. Una storia è ciò che è che si manifesta come storia. Per questo si può dire che qualunque storia è al contempo reale e irreale.  

Il messaggio non duale, se correttamente enunciato e inteso, non svaluta affatto  le storie - sebbene neppure conferisca a qualcuna di esse un qualche particolare rilievo.

motivazioni per cui preferire una modalità "esclusiva" di attenzione, specie nella relazione psicoterapeutica

Mi accorgo di coltivare una predilezione per un'attenzione esclusiva, tendenzialmente orientata ad incentrarsi su situazioni, cose, persone singole. Ad esempio: se decido di fumare non mi va di fare, contemporaneamente, altre cose (quali leggere, scrivere, ecc). Se ascolto una persona non mi va di rispondere al telefono. Se l'interlocutore è un mio paziente poi, solitamente spengo il telefonino, per evitare così di essere disturbato. Naturalmente sussistono delle eccezioni. Ma sono rare. Se durante la terapia il terapeuta decide - consciamente o inconsciamente - di tenere acceso il suo cellulare, sta accordando disponibilità alla possibilità che un evento esterno come una "chiamata" possa interferire  con la situazione, interagire con la relazione terapeutica. E’ una questione tutt'altro che banale. E' chiaro che in ogni caso possono accadere eventi del genere, ma è ben diverso se a ciò si accorda una disponibilità a-priori. Significa, in tal caso, che non si è inclini a salvaguardare l'interazione dalle intrusioni del mondo esterno; che non si opta per una completa esclusività della relazione in corso. Personalmente, se posso scelgo un tale setting - termine col quale in psicoanalisi si designa la cornice ottimale per lo svolgimento di una terapia - sulla base del desiderio di una massima reciprocità di attenzione. Quando parlo con qualcuno, squilla il  suo cellulare, e quel qualcuno risponde alla chiamata, avverto un'intrusione che genera una discontinuità nella comunicazione tra lui/lei e me. L'esperienza mi ha molte volte suggerito che tale intrusione non è quasi mai irrilevante, comunque. Se si fa attenzione alle circostanze in cui accade, alla relazione terapeutica in quel momento, si finisce spesso con l'avvertire come una risonanza, un rimando di senso caratteristico di quei fenomeni che C. G. Jung definiva sincronicistici. La situazione psicoterapeutica, ovviamente, offre una cornice elettiva in cui fare esperienza di ciò. Ma non è qualcosa di esclusivo di essa. Una cosa alla volta significa privilegiare una modalità di rapporto col mondo che consenta una più piena valorizzazione di tutto quanto caratterizza l'esperienza. Se non c'è un minimo di cornice tutto e niente, al contempo, parlano. Possiamo quanto meno immaginare un’attenzione completa, rivolta a tutto quel che accade in certi frangenti. Da un tale vertice la cornice di una terapia appare come un piccolo ritaglio di mondo, di quel più vasto, sconfinato “setting” che allestisce la vita stessa nella sua quotidianità. Credo che un individuo genuinamente interessato, appassionato alla conoscenza, non possa restare indifferente a tutto questo. Restringere il campo dell'attenzione (analisi) è allora, semplicemente, una modalità di valorizzazione della relazione a cui raramente siamo abituati. L'analisi non esclude tuttavia la sintesi, così come il singolare non esclude il collettivo. Una propensione al restringimento del campo dell'attenzione promuove però un ascolto più intimo non solo dell'altro col quale si è in relazione in quel momento, ma anche di tutte quelle “interferenze” che talvolta si manifestano. Esse stanno a ricordarci che esiste un mondo che si estende al di là di me e di te che ha connessioni significative con quel che sta accadendo proprio qui, ora, e che sembra concernere apparentemente soltanto me e te. Questo mondo - che talvolta resta sullo sfondo, talvolta s'intromette tra me e te - configura l’altro quale terzo escluso. L'orientamento “esclusivo” appare pertanto espressione del desiderio di stabilire una modalità simbiotica di rapporto: Soli, tu ed io. Tale "matrice" - a mio parere - offre la condizione ottimale per l'approfondimento conoscitivo, almeno fino a un certo punto. Il campo relazionale dovrebbe restare tale almeno finché non si inizia ad apprezzare il senso delle interferenze, delle “intrusioni” del terzo. Ad esse si è sollecitati a rispondere sempre, comunque - consciamente o inconsciamente. Tuttavia è evidente la differenza tra le due situazioni. Quel che appare come mero "disturbo" se non colto nella sua rilevanza significativa, non é più tale quando se ne intuiscano pur vagamente i nessi immaginativi con la relazione in corso. Un figlio non voluto può apparire come “disturbo”, all'interno di una coppia. Un disturbo che sovente si alimenta della sostanziale incomprensione che sussiste in ambedue i genitori circa la natura della loro relazione e delle connessioni che essa intrattiene col terzo in quanto resto del mondo.

Pubblicità e Psicoterapia

Ci sono almeno due differenti modi di sorridere. C'è quello studiato, finto, posticcio - come quello che talvolta si ostenta davanti all'occhio di una fotocamera, considerato più appropriato alle situazioni pubbliche. C'è il sorriso spontaneo e inatteso, quello che spunta sul volto quando ve lo inducono improvvisamente un gesto, una parola, uno sguardo. Un sorriso che allora - come si dice in casi del genere - sgorga direttamente dal cuore. Non è solo una differenza superficiale ed esteriore. Si tratta di due mondi tra loro ben distinti. Chi si pensa - nel primo caso – stia osservando dall'altra parte e perché quel sorriso studiato, volutamente stampato sul viso? Chi si potrebbe offendere o infastidire se al suo posto, magari, figurasse un'espressione meno giuliva, magari un po’ attonita o addirittura velatamente triste, ma più spontanea, più vera? Si dirà che quello è il sorriso che in certe circostanze "non può mancare" - certo, sì ma... agli occhi di chi? Forse di una madre preoccupata di essere una buona madre e perciò in cerca di conferme nello sguardo sorridente e felice del figlio? Chi vorrebbe o dovrebbe proteggere quel finto sorriso? Quali sono i sogni e i bisogni di chi lo sciorina agli occhi di chi lo osserva? Che senso - se c'è un senso - veicola un tale sorriso?

Entro in banca. Sono in fila, in attesa che si liberi uno sportello. Mi cade l'occhio su di una locandina appesa ad una colonnina che è lì, nei pressi. Raffigura un gruppo di alunni delle scuole inferiori giulivi e sorridenti sopra i quali campeggia una scritta di questo tenore:

                   La banca entra nelle scuole per insegnare cos'è l'economia

Insorgono delle domande. A chi è destinato il sorriso di quei bambini? Cosa vuole esprimere? Letizia per quale buona novella? E' naturalmente un sorriso finto e posticcio, come lo è sempre quello delle immagini prodotte a bella posta per suscitare nello spettatore un'impressione positiva. Chi e come dovrebbe e vorrebbe impressionare tale sorriso, nelle intenzioni di coloro che l'hanno così voluto, “organizzato” e inserito in quel quadretto? Il primo dei due mondi cui si accennava prima è promosso e sostenuto da quel tipo di sorriso. Un sorriso che insegna che l'ipocrisia e la compiacenza sono raccomandabili, che occorrono agli occhi dell'altro (in tal caso il cliente che osserva) che per noi conta (quanto conta, del resto, l'economia nelle nostre vite!) ed è come se dicesse: "bambini sorridete! poiché (anche grazie a questo) farete tanta, tanta strada nella vita"

La psicoterapia non può stare dalla parte di questo mondo, se davvero vuol esser considerata per quel che dovrebbe essere in base a quello che in suo nome afferma di essere - ovvero la cura dell'anima*. Perché l'anima non si cura coi sorrisi posticci. Poiché l'anima è essenzialmente relazione - rapporto - e non c'è rapporto laddove vi siano compiacenza e ipocrisia. Eppure oggigiorno vediamo campeggiare dappertutto immagini simili, anche nel campo della psicoterapia, per com'essa ovunque si raffigura e si pubblicizza. Psicoterapeuti sorridenti, rassicuranti, benevoli e ostentatamente amichevoli, dallo sguardo accattivante, simpatico e bonario. La pubblicità detta canoni e forme di espressione che mal si conciliano con il compito ed il mestiere dello psicoterapeuta. Egli tuttavia dev'esserci, deve presentarsi, deve comparire - ovviamente - anche sui media, altrimenti rimarrebbe invisibile, di fatto inesistente. Tuttavia, dovrebbe farlo senza mai tradire la vocazione della sua professione e della sua materia di studio, che è la cura dell'anima. Una cura indistinguibile dall'autenticità nelle relazioni e dall'amore per la verità.

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* Si rimanda qui all’articolo inserito nella categoria “Immagini e Parole” dal titolo : "che cos'è la psicoterapia"