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 La "lettura" e l'interpretazione dell'opera di un artista sono processi guidati da fattori emozionali, al pari dell'opera stessa. Dall'incontro di due forme di "poesia" -quella dell'interprete con le sue categorie interpretative, e quella dell'artista- ovvero da una totalità in dialogo  con un'altra totalità, scaturisce, nei casi felici, la possibilità di una più profonda partecipazione etica ed estetica dello spettatore nei confronti dell’opera.

Molto si è scritto sul rapporto tra "genio e follia", tra disturbo mentale grave e creatività nelle sue più disparate forme. Ricordiamo tra le opere più rappresentative di questo filone di studi il lavoro di Karl Jaspers su Van Gogh - per restare nel campo dell'arte visiva - esempio di come l'opera di un artista rifletta "luci" e "ombre", sovente tra loro  inestricabili, di un'umanità profondamente ferita. Di una "presenza" che col suo dispiegarsi creativo è in grado di suscitare nell'osservatore una reazione ad ampio "spettro" di risonanze intime. Opera d'arte pertanto quale specchio in cui poter cogliere il riflesso, l'eco di grovigli emozionali irrisolti, in fondo non dissimili da quelli che hanno  ispirato l'artista stesso. In Munch crediamo di rinvenire un elemento ricorrente, e unificante, nell'esigenza di configurare agli occhi dello spettatore una "sintesi totale" dell'esperienza del vivere e del morire: in un abbraccio paradossale in cui coesistano al contempo, come mostra Alessandrini, la massima distanza e la negazione di ogni distanza tra sé e l'altro - la simbiosi e l'isolamento autistico - un orientamento esistenziale che ha prevalentemente caratterizzato la vita dell'uomo e dell'artista.

Ma perché il privilegio di una potenza espressiva come quella di un Munch sembra essere elettivamente - pur se non esclusivamente - riservato ad individui tanto profondamente feriti?  (In merito, sul retro della copertina troviamo la citazione delle parole dell'artista: "L'arte emerge dalla  gioia e dal dolore. Maggiormente dal dolore"). Il libro di Alessandrini mette a fuoco elementi decisivi per tentare di approfondire l'interrogativo. Forse, oltre il dono del talento (va da sé) occorre una passione (pathos: dolore) incondizionata, affinché si possano raggiungere simili livelli di eccellenza espressiva. Ma soprattutto – almeno nel caso di Munch – un ruolo primario sembra che l’abbia avuto una determinata afflizione: la disperazione. Disperazione per l'impossibilità che i bisogni più profondi di un uomo "divorato" dall'angoscia potessero trovare un soddisfacente appagamento nella relazione con un "altro" che fosse semplicemente umano. In tal caso persino maternità e paternità, umani, paiono insufficienti. Si assiste alla ricerca di un'adozione, di un'affiliazione agli elementi stessi della natura: all’aria e alla terra, al vento e alla pioggia a cui l'artista esponeva le sue opere, martoriate nei materiali non meno che nella forma, sottoposte ad un lavorio incessante alla ricerca del prodotto perfetto, della resa totale – qualcosa, infine, di  prossimo a un magma primigenio, caotico e incandescente, di emozioni indicibili.
Il caso di Munch offre un modello esemplare. Dire che il suo "grido" sia il nostro grido o che il suo isolamento sia il nostro isolamento sarebbe oltremodo approssimativo e grossolano, sebbene possa rendere almeno in parte ragione del motivo per cui certi artisti siano capaci di "toccarci" più di altri, di com-muovere come pochi sono in grado di fare.

"I frutti puri impazziscono": La ricerca totale, recalcitrante ad ogni forma di compromesso, forse è al contempo il massimo rischio e la massima possibilità. Alessandrini illustra, pagina dopo pagina, come “successo” e “fallimento” siano in Munch due facce della stessa medaglia. Man mano che l'artista consegnava all'opera il suo volto, la sua vita quotidiana e "terrena" si contraeva: come se il suo poter-essere in una relazione intima con un tu che non fosse un Tu irraggiungibile e "cosmico", dovesse pagarne inesorabilmente il prezzo. Egli morirà solo, nella sua casa, come del resto era sempre vissuto. Una solitudine tuttavia “interrotta” dalla presenza materna della domestica che l'artista, "premuroso di non offendere", accolse nella sua stanza di moribondo.