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Una meditazione infera sul distinguere

Francisco Goya, "il cortile del manicomio" (1794)

Non è un semplice ossimoro, o una contraddizione in termini. E' qualcosa d'altro. Mettiamo da parte l'idea degli opposti, tanto cara alla filosofia orientale non meno che al pensiero junghiano. E' piuttosto inteso - quanto virgolettato nel titolo – come una forma, una possibilità di esperienza. La questione è come aderire, come restare fedeli a tale forma - poi - nel parlare, nello scrivere … nel comunicare in ogni modalità di espressione.

Sono "morto" quando non percepisco una mèta dinanzi a me e tutto tende a rifluire, a collassare verso un centro ignoto che, come un buco nero, risucchia l'energia vitale che quando sono "vivo" percepisco fluire.

Vorrei provare a restare sul terreno della fenomenologia e dell'esperienza vissuta, nel trattare di ciò, perché è persuasivo fornire una descrizione orientata in tal senso. La patologia mentale, ma non solo quella - finirei col dire qualunque forma di “patologia” - forse è, innanzitutto, un’espressione di vita. Quello di "cura" è allora inevitabilmente un concetto assai ambiguo. Le personificazioni interiori che costellano di volta in volta un io, il mio stesso io, potrebbero essere le ombre dei morti: quel passato mai passato, dimenticato o rimosso, o forse mai neppure incontrato, che sta lì, in agguato, come un segugio, pronto ad afferrare la preda.

Se questo discorso potesse svolgersi senza la mediazione del pensiero concettuale sarebbe  un fluire di immagini rispetto al quale non avrebbero alcun senso la critica, la censura, le distinzioni che generano gli opposti. Sarebbe allora paragonabile a un esercizio continuo di quella che Jung definiva immaginazione attiva. Il punto è chiedersi, tuttavia, se per quel mondo - per quella dimensione consensuale - che per funzionare ha bisogno di operare costantemente dei distinguo un tale “regime”, che poi è quello che auspicavano A. Breton (1896-1966) e il movimento artistico definito "surrealismo", sia effettivamente sostenibile. Forse ogni forma di discernimento in ultimo è la barriera frangiflutti che garantisce - se e quando funziona - che alla riva non sopraggiungano mai, o quasi mai, grosse ondate. Spesso l'indagine critica tout court ha, essenzialmente, una tale funzione. Solve et coagula equivale a dire, in termini alchemici, che l'analisi assottiglia, polverizza, scioglie ma al contempo concretizza le nostre cosiddette patologie, o problematiche psicologiche. I veri “matti”, non i finti - non quelli cioè che si ribellano sfilando con cartelli che rivendicano il diritto alla s-ragione (sic!) o qualunque forma di pensiero alternativo - tacciono. Che siano loro gli autentici, i fedeli portavoce dei morti e del loro lamento?

Portavoce paradossali, poiché quelle voci restano silenziose.

Se gettiamo uno sguardo alla storia della psichiatria e della psicoterapia degli ultimi due secoli, possiamo constatare che l'opera di coloro - compreso quella dei primi grandi pionieri della disciplina quali Freud e Jung - che hanno cercato di andare in profondità rispetto al problema della natura del disagio psichico, della psicopatologia, non ha fatto altro, malgrado le loro migliori intenzioni, che approntare simili barriere frangiflutti a salvaguardia della società e dei ben-pensanti nel loro insieme. Ha tradito, non meno di quanto abbia tradotto, la voce dei morti. Come, ci si chiederà? Erigendo paradigmi concettuali e interpretativi atti a definire e distinguere, a operare suddivisioni dell'esperienza che scongiurino l'angoscia, il rischio del caos, il pericolo che alla riva possano sopraggiungere enormi tsunami che devastino la civiltà dell’io. Del resto cos'altro avrebbero potuto fare? Cos'altro si potrebbe mai fare? La Società in ogni epoca vuole i suoi poeti ribelli e i loro disciplinati custodi. Gli Holderlin e i Van Gogh, non meno che i Freud e gli Jaspers impegnati a decifrarne (sic!) la follia. Ma anche un pubblico. Un pubblico che osservi, che ascolti e che sia pronto all'applauso al termine della rappresentazione.

I "matti", tuttavia, - quelli veri - restano silenziosi, sullo sfondo. Non sembra che siano stati toccati da tutto questo né da oltre cent'anni di psicoterapia. Troppo pallidi ed esanimi, troppo umbratili. Inafferrabili.

Forse troppo vivi.

Bibliografia essenziale

- Adorisio, A. (2013), "L'immaginazione attiva: origini ed evoluzione" in Quaderni di Cultura Junghiana, Anno 2 n.2, 2013

- Breton, A. (1924), "Manifesto del surrealismo" Einaudi, 1966

- Hillman, J. (1979),  "Il sogno e il mondo infero" Il Saggiatore 1988

- Hillman, J. Ventura, M. (1992), "Cent'anni di psicoterapia e il mondo va sempre peggio"  Raffaello Cortina, 1998

- Hillman, J. Shamdasani, S. (2011), "Il lamento dei morti", Bollati Boringhieri  2014

- Jaspers, K. (1922), "Genio e Follia" Raffaello Cortina, 2001

- Jung, C. G. (A cura di Shamdasani, S. 2009), "Il libro rosso" Bollati Boringhieri, 2012

- Tellenbach, H. (1974), "Melancolia" Il Pensiero Scientifico, 1975

 La "lettura" e l'interpretazione dell'opera di un artista sono processi guidati da fattori emozionali, al pari dell'opera stessa. Dall'incontro di due forme di "poesia" -quella dell'interprete con le sue categorie interpretative, e quella dell'artista- ovvero da una totalità in dialogo  con un'altra totalità, scaturisce, nei casi felici, la possibilità di una più profonda partecipazione etica ed estetica dello spettatore nei confronti dell’opera.

Molto si è scritto sul rapporto tra "genio e follia", tra disturbo mentale grave e creatività nelle sue più disparate forme. Ricordiamo tra le opere più rappresentative di questo filone di studi il lavoro di Karl Jaspers su Van Gogh - per restare nel campo dell'arte visiva - esempio di come l'opera di un artista rifletta "luci" e "ombre", sovente tra loro  inestricabili, di un'umanità profondamente ferita. Di una "presenza" che col suo dispiegarsi creativo è in grado di suscitare nell'osservatore una reazione ad ampio "spettro" di risonanze intime. Opera d'arte pertanto quale specchio in cui poter cogliere il riflesso, l'eco di grovigli emozionali irrisolti, in fondo non dissimili da quelli che hanno  ispirato l'artista stesso. In Munch crediamo di rinvenire un elemento ricorrente, e unificante, nell'esigenza di configurare agli occhi dello spettatore una "sintesi totale" dell'esperienza del vivere e del morire: in un abbraccio paradossale in cui coesistano al contempo, come mostra Alessandrini, la massima distanza e la negazione di ogni distanza tra sé e l'altro - la simbiosi e l'isolamento autistico - un orientamento esistenziale che ha prevalentemente caratterizzato la vita dell'uomo e dell'artista.

Ma perché il privilegio di una potenza espressiva come quella di un Munch sembra essere elettivamente - pur se non esclusivamente - riservato ad individui tanto profondamente feriti?  (In merito, sul retro della copertina troviamo la citazione delle parole dell'artista: "L'arte emerge dalla  gioia e dal dolore. Maggiormente dal dolore"). Il libro di Alessandrini mette a fuoco elementi decisivi per tentare di approfondire l'interrogativo. Forse, oltre il dono del talento (va da sé) occorre una passione (pathos: dolore) incondizionata, affinché si possano raggiungere simili livelli di eccellenza espressiva. Ma soprattutto – almeno nel caso di Munch – un ruolo primario sembra che l’abbia avuto una determinata afflizione: la disperazione. Disperazione per l'impossibilità che i bisogni più profondi di un uomo "divorato" dall'angoscia potessero trovare un soddisfacente appagamento nella relazione con un "altro" che fosse semplicemente umano. In tal caso persino maternità e paternità, umani, paiono insufficienti. Si assiste alla ricerca di un'adozione, di un'affiliazione agli elementi stessi della natura: all’aria e alla terra, al vento e alla pioggia a cui l'artista esponeva le sue opere, martoriate nei materiali non meno che nella forma, sottoposte ad un lavorio incessante alla ricerca del prodotto perfetto, della resa totale – qualcosa, infine, di  prossimo a un magma primigenio, caotico e incandescente, di emozioni indicibili.
Il caso di Munch offre un modello esemplare. Dire che il suo "grido" sia il nostro grido o che il suo isolamento sia il nostro isolamento sarebbe oltremodo approssimativo e grossolano, sebbene possa rendere almeno in parte ragione del motivo per cui certi artisti siano capaci di "toccarci" più di altri, di com-muovere come pochi sono in grado di fare.

"I frutti puri impazziscono": La ricerca totale, recalcitrante ad ogni forma di compromesso, forse è al contempo il massimo rischio e la massima possibilità. Alessandrini illustra, pagina dopo pagina, come “successo” e “fallimento” siano in Munch due facce della stessa medaglia. Man mano che l'artista consegnava all'opera il suo volto, la sua vita quotidiana e "terrena" si contraeva: come se il suo poter-essere in una relazione intima con un tu che non fosse un Tu irraggiungibile e "cosmico", dovesse pagarne inesorabilmente il prezzo. Egli morirà solo, nella sua casa, come del resto era sempre vissuto. Una solitudine tuttavia “interrotta” dalla presenza materna della domestica che l'artista, "premuroso di non offendere", accolse nella sua stanza di moribondo.